Craxi e il riferimento dimenticato al socialismo liberale

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Craxi nel corso del suo percorso politico ha fatto riferimento in diverse occasioni al socialismo liberale di Carlo Rosselli .

L’esperienza politica di Craxi dovette fare i conti da una parte con il matrimonio culturale e alla mentalità fortemente diffusa nel suo partito, dall’altro alle trasformazioni sociali in corso  in Italia. In questo contesto cerco di progettare e attuare, nel contesto dei limiti di un partito con un ristretto consenso elettorale , un socialismo moderno e più vicino al mondo contemporaneo.

Il rifermento al socialismo liberale di Carlo Rosselli

Craxi pur non essendo un vero e proprio teorico, ebbe come punto di riferimento per la sua analisi critica il libro di Carlo Rosselli sul Socialismo liberale. Questa lettura portò Craxi ad elaborare una proposta politica poco di sinistra rispetto alla cultura politica dominante nella sinistra in Italia.

La proposta politica è sta molto vicino ad una terza via, dove per terza via non si intende un corso al di là del capitalismo e del comunismo, ma un percorso  che riuniva in fondo l’idea socialista e quella liberale. Questa idea si poneva oltre alle idee tradizionali di destra e sinistra.

Le idee di Rosselli su socialismo e liberismo

Nel libro Carlo Rosselli formula una proposta notando la crisi intellettuale della nuova generazione socialisti a lui contemporanei e partendo dal presupposto che i termini socialismo e liberali non sono più in antitesi come in nel corso del 1800.

Il liberalismo, in modo particolare quello economico, si è progressivamente discostato dal pensiero classico e si è progressivamente investito del problema sociale. Il socialismo è diventato meno utopico e  ha acquisito una maggiore sensibilità per i problemi della libertà e dell’autonomia.

Rosselli sosteneva che il marxismo riteneva la storia  come un prodotto costituito da tappe necessarie, cioè una concezione deterministica e una visione antagonistica della storia. Il liberismo, secondo Rosselli aveva comunque una visione antagonistica della storia, ma aveva svolto una funzione pratica di estendere la libertà umana. Il metodo liberale rispetto a quello marxista presupponeva una concezione non deterministica della storia cioè l’uomo è libero di creare la propria storia.

Le critiche al socialismo di Rosselli

Rosselli sosteneva che il socialismo italiano era rimasto sempre fedele a livello dottrinale al marxismo e la crisi del socialismo italiano era dovuta all’abbraccio mortale tra socialismo e marxismo  e che un partito legato ad una dottrina così rigida poteva avere delle difficoltà nel capire la realtà e commettere gravi errori.

Nel suo saggio Rosselli sostenne che si era passati dal marxismo al revisionismo e poi dal revisionismo al liberalismo come era già stato sostenuto Bernstein precedentemente cioè di un socialismo liberale. In questa prospettiva il proletariato potava avanti l’idea di libertà. Il proletariato era l’erede della funzione liberale.

Le idee di Craxi

Craxi riprese le idee di Rosselli le ragioni liberatorie del pensiero marxista e cercò di tradurle sul piano politico. Il segretario del Psi cercò, consapevole dei profondi mutamenti che si stavano svolgendo nella società anche per i ceti sociali più deboli cercò di sviluppare un progetto politico adatto ai tempi.

L’evoluzione di Craxi verso il liberalsocialismo fu graduale in quanto si trattava di entrare in un area eretica rispetto alla tradizione socialista del Psi. Il giovane segretario del Psi criticava le idee economiche di una terza via semicollettivista, anticonsumista e anticapitalista sostenute dal Pci nel contesto del compromesso storico.

Craxi e Il discorso del 1976 sulle sue idee economiche

Alla fine del 1976 in un convegno degli economisti del partito il giovane segretario pronunciò un discorso  dal titolo «Linee di un programma economico sociale, per uscire dalla crisi». In questo intervento sostenne che non era vero che gli italiani vivevano al di sopra de loro mezzi, il problema era che utilizzavano poco e male le risorse interne. Inoltre sosteneva l’idea che erano necessarie delle riforme per una “maggiore mobilità intersettoriale” cioè ridurre le rigidità contrattuali del mercato del lavoro.

Un esempio di attuazione di queste idee economiche fu che  il Psi nel 1979, a differenza del Pci  a non votò contro all’entrata dell’Italia nello SME, il serpente monetario che avrebbe portato all’Unione monetaria europea.

L’intervista a L’Espresso del 1978 e il Comitato Centrale del 29 ottobre 1982

Nel 1978 in un’intervista a “L’Espresso” Craxi sostenne che all’intero del socialismo si erano scontrate due concezioni della società ideale quella autoritaria e centralista e quella libertaria e pluralista.  Quindi Marx e Lenin andavano accantonati perché erano alla base delle azioni di Stalin.

Queste idee vennero riaffermate nel discorso al Comitato centrale del 29 ottobre 1982 in cui emerse il suo pensiero liberalsocialista. Il segretario pose alla base della sua azione programmatica i valori di libertà ed uguaglianza.  La parte innovativa fu quella che riguardava le riforme istituzionali e costituzionali che dovevano portare l’Italia ad essere una «democrazia governante». In questo suo intervento non mancò  comunque di affrontare le questioni economiche e in particolare delle disuguaglianze.

Gli anni della presidenza del Consiglio e successivi

Negli anni della presidenza del Consiglio  Craxi manifestò la propensione per certe idee liberali, dovute alle esigenze che nascevano dalle trasformazioni politiche ed economiche in atto  che portarono il segretario del Psi a sostenere le imprese di media e grande dimensione, il  «made in Italy» nella libera competizione mondiale.

Craxi in coerenza con i suoi principi liberalsocialisti sostenne l’apertura ai grandi mercati europei e ai principi dell’economia di mercato, inoltre sostenne all’interno della coalizione di governo  l’adesione al trattato di Maastricht firmati da ministro degli Esteri  socialista Gianni De Michelis.

Nel corso della sua esperienza politica il socialismo liberale di Bettino Craxi fu caratterizzato  da voler modernizzare diversi aspetti come: la cultura politica della sinistra, le istituzioni e la costituzione italiana, l’economia e la società italiana.

Francesco Sunil Sbalchiero

Bibliografia:

P. Mattera, Storia del Psi, Carocci, Roma, 2010

L. Musella, Craxi, Salerno Editrice, Roma, 2007

A. Spiri (a cura di), Bettino Craxi. Il riformismo e la sinistra italiana, Marsilio Venezia, 2010

Gobetti: la cultura politica

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Gobetti è rimasto nel corso degli anni uno delle figure più difficili da collocare all’interno di una cultura politica. In questo breve articoli ci si sofferma su alcuni aspetti di questo dibattito.

La questione dell’appartenenza di Gobetti ad una determinata cultura politica ed alla storia del liberalismo italiano è sempre stata molta discussa. Questa difficoltà di collocamento è avvenuta per diversi motivi come la sua partecipazione attiva come oppositore del fascismo,  la sua collaborazione al giornale torinese Ordine nuovo e i giudizi espressi sul movimento dei consigli di fabbrica[1] e la sua concezione rivoluzionaria.

Gobetti e il giudizio di Turati e  di Brosio

Su questa difficoltà di collocazione politica e culturale di Gobetti anche i contemporanei ponevano  il problema ad esempio  nel commento al suo volume La rivoluzione liberale apparso sulla rivista diretta da Filippo Turati venivano posti le seguenti quesiti:

Chi è Gobetti ? è un liberale? è un conservatore? è un comunista? È tutte tre le cose assieme? E come si possono conciliare? Certo, è un agitatore di idee, e un tenace antifascista dietro o acanto al quale vanno molti altri giovani smaniosi di novità e di chiarificazioni filosofiche e politiche[2]

Anche un liberale come Manlio Brosio nelle sue Riflessioni su Piero Gobetti considera difficile collocare il pensiero di Gobetti che lui definisce più rivoluzionario che liberale.[3]

Il dibattito sull’edizione del 1995

Nel 1995 in occasione  di una  riedizione del  libro Rivoluzione Liberale Paolo Flores d’Arcais che ne ha scritto la prefazione ha parlato di “profetismo” di Gobetti come un liberale del futuro. Questo portò ad un dibattito[4] tra chi cercò di recuperare Gobetti in senso neocomunista  e chi denunciò questo recupero come il professore di storia politica all’Università di Pisa Domenico Settebrini.[5] 

Un’altra posizione critica, ma diversa dal professore di Pisa fu quella del filosofo Antimo Negri  che critico l’uso strumentale che si stava facendo di Gobetti e del suo pensiero che stava facendo la rivista Micromega diretta da Paolo Flores D’Arcais. Negri sottolinea anche come questa difficoltà di collocare Gobetti all’interno di una determinata cultura politica è dovuta alla suo essere eclettico. Questa idea è condivisa nel saggio già citato da Petitot.

Il pensiero di Piero Gobetti

Al di la  di questi rapporti con Gramsci e l’ordine nuovo e del dibattito sulla sua collocazione all’interno delle culture politiche Gobetti è e rimarrà nel corso della sua breve  vita un liberale e non condivideva nulla con l’ideologia socialista sia sul piano filosofico[6], ma soprattutto sul piano economico.[7]

Il pensiero politico del giovane intellettuale torinese venne influenzato da diversi maestri in modo complementare Salvemini e Mosca per gli aspetti più politici, Gentile e Croce per la filosofia, mentre Luigi Einaudi e Benedetto Croce per il pensiero liberale.


Note e bibliografia

[1] Cfr. P. Spriano, Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere, Einaudi, Torino, 1977

[2] «Critica sociale», a. XXXIV, n. 11, 1-15 giugno 1924, p.170

[3] M. Brosio, Riflessioni su Piero Gobetti, Aragno, 2020 p.23

[4] I principali  interventi sono di Bruno Quaranta su “La Stampa” il 20 maggio 1995, Bruno Gravagnolo su “L’Unità” il 2 giugno 1995,  Marcello Veneziani su “La Repubblica”2 giugno 1995

[5]  Jean Petitot, Liberalismo e illuminismo. La rivoluzione liberale di Piero Gobetti, in Philippe Nemo, Jean Petitot (a cura di), Storia del liberalismo in Europa, Rubbettino, 2013 p. 634

Francesco Sunil Sbalchiero

Giovanni Leone: la richiesta di dimissioni del 1976 di La Malfa

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Giovanni Leone viene ricordato molto spesso per essere stato presidente della Repubblica durante il sequestro Moro e per le sue dimissioni nel 1978. In questo articolo oltre a ripercorrere alcuni aspetti della biografia del politico napoletano, si approfondisce un aspetto poco conosciuto cioè le dimissioni chieste da La Malfa nel 1976, due anni prima della decisione ufficiale di Leone di dimettersi.

Il contesto politico

La richiesta di dimissioni di Giovanni Leone dalla presidenza della Repubblica da parte di Ugo La Malfa è da contestualizzare nel mutamento del contesto politico rispetto al momento della elezione. Il politico napoletano era stato eletto alla vigilia di Natale del 1971 da una maggioranza di centro-destra con i voti necessari del Msi e dei monarchici.

Il ruolo di La Malfa

La candidatura di Leone in quel contesto era stata sostenuta da La Malfa, in opposizione al sostegno da parte delle sinistre della candidatura di Aldo Moro che sembrava rievocare un intesa tra i tre grandi partiti di massa, come risposta confusa al sessantotto, in una fase in cui l’elettorato si stava spostando a destra tendenza che venne confermata anche nelle elezioni politiche anticipate del 1972.

Queste furono le motivazioni che portarono La Malfa a sostenere Leone e avversare Moro  e dopo le elezioni  il leder del Pri garanti l’appoggio esterno al governo Andreotti- Malagodi. Questo governo che vedeva al mistero del tesoro Malagodi esponente del pensiero liberale liberista venne visto per alcuni esponenti della Dc, ma anche da La Malfa come un tentativo di riportare un rigore nella finanza pubblica.

Al di la delle aspettative di La Malfa il governo Andreotti-Malagodi fu un’esperienza molto breve ed effimera che non riuscì a far rinascere la formula centrista e quindi porre un’alternativa reale al centro-sinistra. Infatti già nel congresso successivo della Dc che si tenne a Roma nel 1973 si decise di tornare all’esperienza del centro-sinistra.

La sua figura inizio ad essere fuori contesto nella fase successiva, dopo il 1973 quando si era avviato un dialogo tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. Quando Berlinguer, che era stato eletto segretario del Pci nel  marzo 1972 a conclusione del XIII congresso, il 28 settembre prendendo spunto dal golpe in Cile illustrò su “Rinascita” la nuova strategia del partito il “compromesso storico”.

Due anni turbolenti 1975-1976

Con il 1975 inizia una fase del settennato di Giovanni leone di svolta, inizia un decadere la sua immagine pubblica un esempio fu l’episodio avvenuto a Pisa il 18 ottobre 1975, quando durante una visita ufficiale al Centro nazionale universitario calcolo elettronico, di fronte ad un gruppo di contestatori e immortalato dai fotografi fece il gesto apotropaico delle corna.

Oltre a questo episodio iniziarono delle chiacchiere su suoi figli troppo presenti in particolare il figlio che interveniva su affari politici e istituzionali, ma anche la moglie più giovane di lui alimentava discussioni che potarono negli anni successivi alla diffamazione sistematica.

La sua figura fuori dalla nuova fase politica lo portò ad un crescente isolamento nel suo stesso partito e rispetto al sistema dei partiti che avrebbe preferito un presidente ligio alla direttive un notaio. Alcuni interventi di Leone vennero visti dall’opinione pubblica come critiche ai partiti.

La possibile alleanza tra DC e PCI

Questa prospettiva di un’alleanza politica tra Pci e Dc subì un’accelerazione dopo le elezioni amministrative del 1975 con l’avanzata elettorale del Pci. Il presidente della Repubblica si espresse più volte contro ogni ipotesi di ingresso nel governo di ministri comunisti.

Dopo i risultati di queste elezioni il quadro politico appariva ancora più complesso e precario, la Dc cercava di ritrovare consensi affidando questo compito al segretario Beninio Zaccagnini. Il Pci cerca di avviarsi prudentemente verso l’area di governo, mentre il Psi puntava a porsi come possibile guida di un futuro governo di sinistra. Per questo in vista del congresso il segretario De Martino annunciò l’uscita del Psi dal governo presieduto da Aldo  Moro, che si dimise il 7 gennaio 1976.

Giovanni Leone ridiede l’incarico ad Aldo Moro che formo un un governo monocolore con il voto favorevole in Parlamento del Psdi, ma si arrivo comunque allo scioglimento anticipato del parlamento e le elezioni si sarebbero svolte nell’aprile 1976.

Il tentativo di coinvolgere Leone nello scandalo Lockheed

Contemporaneamente a questa difficile situazione politica non si attenuava la difficile congiuntura economica, si riaccendeva lo scontro tra cattolici e laici sulla discussione sulla proposta di legge sull’aborto, ma soprattutto scoppiò anche in Italia  fragorosamente lo scandalo Lockheed, alla vigilia delle elezioni politiche nuovamente anticipate.

Lo scandalo riguardava il versamento di due milioni  di dollari pagati nel 1969-1970 dalla società americana Lockheed  come tangenti a esponenti politici italiani  per la fornitura di aerei militari e coinvolse l’esponente della Dc Mariano Rumor presidente del Consiglio  e due ministri della Difesa il democristiano Gui e il socialdemocratico.

In questo contesto vi fu il tentativo di coinvolgere nella vicenda anche il Quirinale, in quanto Giovanni Leone era stato presidente del Consiglio nel 1968 ed era amico dei due mediatori d’affari  coinvolti nello scandalo Antonio e Ovidio  Lefebvre D’Ovidio. Quando il 21 aprile  venne fuori il coinvolgimento tra un certo Antelope Cobbler e un presidente del consiglio, alcuni quotidiani iniziarono  a collegare il nome di Antelope Cobbler a quello di Giovanni Leone.

La richiesta di dimissioni del 1976

Con lo scoppio dello scandalo Loockeed, La Malfa chiese già nell’aprile 1976 in via riservata a Leone di dimettersi, ancora quando a Leone non erano stati mossi addebiti precisi e la stampa non aveva ancora iniziato quella campagna, che lo porterà a dimettersi nel 1978.

Successivamente il leader repubblicano alla vigilia delle elezioni legislative del giugno 1976, con l’allora direttore del « Tempo» Gianni Letta, in una conversazione La Malfa suggerì la necessità delle dimissioni di Leone, non solo per i riflessi sulle elezioni e le emozioni suscitate dallo scandalo Lockheed, ma perché sarebbe stato importante portare alla presidenza della Repubblica una figura organica alla nuova fase politica di accordo tra i partiti e che sarebbe stato in grado di indirizzarla.

Leone non era adatto a questo ruolo per la sua storia ancor più per la sua inclinazione politica, infatti nella sua concezione la politica non i fondava sul primato dei partiti e neppure su accordi organici tra di loro. Quindi secondo La Malfa nel 1976 Leone si sarebbe dovuto dimettere per tutti questi motivi, ma anche solo come semplice gesto di nobiltà per l’interesse del Paese.

Inoltre per il leader del Pri, le dimissioni di Leone erano un forte atto di responsabilità politica e morale, che avrebbero potuto evitare la deriva, cancellando le ombre che iniziavano gravare sulla più alta carica istituzionale.

La necessità di un cambiamento

La necessità di un cambiamento alla presidenza della Repubblica per rafforzare l’accordo tra i partiti rimase anche dopo le elezioni legislative del 1976 e negli ultimi anni del settennato di Giovanni Leone, quando i comunisti ottennero un grande successo, ma la Dc ottenne comunque buoni risultati.

Francesco Sunil Sbalchiero

Bibliografia:

G. Vecchio, Giovanni Leone, in I presidenti della Repubblica. Il capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, (a cura di) S. Cassese, G. Galasso; A. Melloni, Il Mulino, Bologna, 2018

C. Cederna, Giovanni Leone. La carriera di un presidente, Feltrinelli, Milano, 1978

S. Colarizi, Un paese in movimento. L’Italia degli anni Sessanta e settanta, Laterza, Roma- Bari, 2019

P. Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, Laterza, Roma-Bari, 2017

P. Soddu, Ugo La Malfa. Il riformista moderno, Carocci, Roma, 2008

P. Barrrotta, Storia del Partito Liberale Italiano nella Prima Repubblica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019

G. Quagliarello, Il caso Leone, in Ventunesimo Secolo, Vol. 2, No. 4, Ottobre 2003

A. Battaglia, A. Carioti, Battaglia: perché La Malfa chiese le dimissioni già nel 1976, in Ventunesimo Secolo, Vol. 2, No. 4, Ottobre 2003

Silvio Trentin: l’interpretazione del fascismo

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Silvio Trentin è stato un importante giurista e antifascista veneto e in questo articolo sarà trattata la sua interpretazione del fascismo.

L’opposizione al fascismo di Silvio Trentin

Silvio Trentin è tra le più vigorose e affascinanti figure dell’antifascismo italiano anche se la sua interpretazione del fascismo trova poco spazio nelle pubblicazioni sull’argomento. Il filosofo Norberto Bobbio descrive con queste parole Silvio Trentin:

Figura eccezionale di uomo di studi e d’azione. Che non dissocia mai l’impegno dello studioso da quello del militante, per il quale , riprendendo i titoli dei due famosi saggi di Max Weber, tanto la scuola quanto la politica sono insieme, e non disgiuntamente, una professione  e una vocazione. Non disgiuntamente e non confuse. Trentin sapeva perfettamente dare alla scienza quel che è della scienza e alla politica quel che è della politica.[1]

L’intellettuale veneto è forse il rappresentante più autorevole di una interpretazione radicale dell’antifascismo già il 7 gennaio 1926 rinunciò all’incarico di professore di diritto pubblico per non sottomettersi al decreto-legge fascista del 24 dicembre 1925, che imponeva ai funzionari dello stato di non porsi «in condizione di incompatibilità con le generali direttive del governo».[2]

Tra i primi immigrati politici in Francia

Trentin appartiene alla prima generazione degli emigrati politici e partì per la Francia il  2 febbraio 1926 un esilio che durò 18 anni, fino al 25 agosto 1943 quando rientrò in Italia per partecipare alla resistenza nelle fila del Partito d’Azione. Nel periodo dell’esilio compose diverse opere di critica del fascismo.

Le caratteristiche generali della sua interpretazione

L’interpretazione del fascismo di Silvio Trentin nei suoi primi scritti ha degli aspetti di notevole novità rispetto ad altri scritti di antifascisti contemporanei, infatti emerge fin dall’inizio il superamento da parte del giurista veneto della limitato orizzonte della vicenda politica nazionale.

All’interpretazione del fascismo di Trentin, poco studiosi hanno dedicato la giusta rilevanza a questa interpretazione[3], mentre ha ricevuto poco spazio nei libri che trattano delle interpretazioni del fascismo.

Trentin e la  comprensione iniziale del Fascismo

Silvio Trentin comprese fin dall’inizio che l’antibolscevismo di cui i fasci si facevano banditori copre in realtà l’idea di un duro scontro di classe anche se il giurista veneto in questa fase è molto lontano dal movimento socialista.

In un discorso pronunciato alla vigilia delle elezioni del 1921 a Venezia , che segnarono la sconfitta della Democrazia sociale di cui era deputato dal 1919, sostenne che vi era una scissione tra chi era stato interventista sulla questione sociale, la centralità del rapporto dei fasci e tentativi della reazione  e la condanna della violenza come metodo di lotta politica.

Tre elementi che rimarranno fermi nel pensiero antifascista di Trentin anche se l’esperienza della lotta antifascista lo condurrà a posizioni diverse, soprattutto a proposito dell’uso della violenza nello scontro con il regime fascista.

Trentin e i  primi scritti in Francia sul fascismo

Tretin nel suo primo periodo in cui fu esule in Francia si dedicò nella seconda metà degli anni venti ad un’intensa attività pubblicistica di libri e opuscoli dedicati al regime fascista con l’intento di fa conoscere all’opinione pubblica francese ed europea quello che stava accadendo in Italia.

Le opere scritte in questa fase dal giurista veneto non sono solo opere di denuncia della situazione italiana, ma sono anche un’analisi giuridica di come il fascismo a preso il potere e consolidato il suo regime.

I titoli principali in questa fase sono: L’aventure italienne  a les transfomations  recents du droit public italien. De la Charte de Clarles Albert à la création de l’Etat fasciste, Aux sources du fascisme, Antidemocratie e Le fascisme à Genève.

I tratti caratterizzanti di questi scritti

L’interpretazione del fascismo di Trentin che emerge da questi suoi scritti risente in modo evidente dell’influenza di Benedetto Croce delle correnti democratiche vicine al partito repubblicano e al partito socialista unitario.

Elementi importanti di queste analisi erano da una parte la difesa dello Stato liberale e delle sue istituzioni di fronte, mentre dall’altra l’idea che la prima guerra mondiale aveva portato una della borghesia ad aprire la strada al fascismo rinnegando quindi l’ordinamento democratico per paura dell’ascesa al potere del proletariato.

Trentin a differenza di Croce sottolinea le responsabilità della classe dirigente liberale  d fronte all’assalto di un movimento giudicato non come espressione della crisi del primo dopoguerra in atto bensì come sfruttatore di essa ai suoi fini di conquista del potere.

Due elementi caratteristici dell’interpretazione di Trentin

Nell’interpretazione del giurista veneto vi sono due elementi originali rispetto alle altre interpretazioni. Il primo è la costante attenzione di Trentin alla politica estera del regime  e del carattere internazionale del pericolo fascista, idee che verranno confermate negli anni trenta.

Il secondo elemento molto più importante è costituito dall’apporto che le sue pubblicazioni del periodo danno alla disamina dell’ordinamento costituzionale dello Stato fascista.

Trentin nella sua opera Les transfomations  recents du droit public italien giunge a conclusioni interessanti dal punto di vista istituzionale, non solo dimostra l’illegittimità costituzionale delle leggi approvate dal regime fascista nella seconda meta degli anni venti per affidare il potere legislativo all’esecutivo, per inquadrare la milizia nelle forze armate, per inserire il Gran consiglio negli organi costituzionali, ma sottolinea il processo dualistico creato dal fascismo nell’organizzazione dello Stato.

Il giurista veneto nel suo scritto afferma come Mussolini e la classe dirigente fascista non abbiano abbattuto lo Statuto albertino  e sostituito una nuova costituzione, ma attraverso un artificioso dualismo hanno organizzato nel  organizzato nel  «seno dell’organizzazione nazionale», un’altra «organizzazione parassitaria» la quale vivendo e agendo sotto la responsabilità e a spese dello stato legale era in grado gradualmente di appropriarsi di tutte le sue funzioni.

L’intuizione importante di Trentin

In questi  suoi primi scritti Trentin non vi è ancora un formulazione dell’idea che in Italia il fascismo ha instaurato un doppio stato, ma c’è l’intuizione della procedura di svuotamento e sovrapposizione perseguita dal fascismo.

Questo elemento rende caratteristica l’interpretazione  del giurista veneto e questa analisi giuridica sarà ripresa dalla storiografia solamente nel secondo dopoguerra.

Note e Bibliografia

F. Cortese, Libertà individuale e organizzazione pubblica in Silvio Trentin, Franco Angeli , Milano, 2008

M. Guerrato, Silvio Trentin. Un democratico all’opposizione; Vangelista, Milano, 1981

M. Guerrato, L’antifascismo tra le due guerre alla ricerxa di una nuova unità. Seminario italo-francese, Centro studi e ricerca “Silvio Trentin” di Jesolo, 2005

F. Rosengarten, Silvio Trentin dall’inteventismo alla Resistenza, Ronzani Editore,2021


[1] N. Bobbio, L’esempio di Trentin. Scritti 1954-1991, (a cura di) P. Impagliazzo, P. Polito , Firenze University Press, 2020, p. 47

[2] P. Polito, Un’altra Italia, Aras, 2021 pp. 26-27

[3] Gli studi principali sull’argomento sono  A. Ventura, Intellettuali. Cultura  e politica tra fascismo e antifascismo, Donzelli,  2017 e N. Tranfaglia, Labirinto italiano. Il fascismo, l’antifascismo , gli storici, La Nuova Italia, 1989 in cui sono presenti due capitoli in cui viene approfondito l’argomento.

Sunil Sbalchiero

Gramsci e Gobetti: la nascita di un binomio

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L’aspetto affrontato in questo articolo, è forse uno dei nodi storiografici centrali nella biografia politico culturale di Piero Gobetti in quanto ha condizionato anche lo studio del giovane intellettuale Torinese cioè il suo rapporto con Gramsci. In questa prima parte viene affrontata la nascita di questo binomio.

Il comunista Gramsci e il liberale Gobetti

Una testimonianza importante per capire il rapporto porto tra l’intellettuale comunista e il giovane intellettuale liberale è quella di Camilla Ravera raccolta da Paolo Gobetti nel libro Racconto interrotto.  Piero Gobetti nel ricordo degli amici. Camilla Ravera  racconta:

Mi ricordo quando io arrivai a Mosca nell’ottobre del ‘ 22 un delle prime domande che Gramsci mi fece fu questo: «E Piero Gobetti?» Io potevo dargli poche notizie perché in quel momento io ero già quasi entrata in clandestinità. [1]

AA. VV.,  Racconto interrotto. Piero Gobetti nel ricordo degli amici, Nuova immagine, 1992

Queste parole fanno capire la relazione di rispetto e stima tra l’intellettuale comunista e il giovane intellettuale liberale che può sembrare paradossale.  Il rapporto  tra il liberale Piero Gobetti e il comunista Antonio Gramsci, può essere di difficile comprensione se non si tiene conto del particolare contesto in cui si svolge la loro rapporto quella della Torino, capitale dell’industria italiana, dopo la prima guerra mondiale e la portata immensa della rivoluzione russa sembrava aver spalancato per i lavoratori e tutta l’umanità.

La nascita di un accostamento

L’inizio di questo giudizio su Gobetti si può far risalire a quando il giovane torinese invitò a Torino il fondatore della Voce Giuseppe Prezzolini per organizzare un incontro con Gramsci. Prezzolini su questo scrive:

Gramsci è uno degli uomini più notevoli dell’Italia. Il suo Ordine  ha una parola originale. E personalmente ha fede, energia, non lavora per il momento…Mi fermai per conoscere il gruppo di amici di Gobetti. È un’energia Gobetti, una forza morale grande…Ma penso che se domani non dovessi andare d’accordo con lui, mi taglierebbe la testa, se potesse, senza scrupoli. Per onestà.[2]

G. Prezzolini (a cura di), Gobetti e la Voce, Sansoni, 1971 p. 37

Risale a questo periodo la diceria di un Gobetti cripto-comunista, un comunista camuffato da liberale, nata in ambienti socialisti locali. Gramsci in diverse occasioni smentì questa diceria, in un occasione trascinato in una polemica personale, replicò seccamente:

E cosa c’entra il liberale Gobetti? Egli non è iscritto al Partito comunista, è un giovane che ha compreso la grandezza della Rivoluzione russa e dei capi che la guidano….Egli non ha responsabilità politiche all’Ordine nuovo[…][3]

A. Gramsci, Scritti 1915-1921, nuovi contributi, a cura di S. Caprioglio, i Quaderni del «Corpo», 1968, p. 160

Nello stesso articolo successivamente scrive:

Ci auguriamo che egli si persuada sempre più che se liberalismo significa incremento di capacità e della autonomia popolare, se il liberalismo significa incremento di capacità politica negli individui, oggi il liberalismo come concretezza storica, vive solo nel Comunismo internazionale[4]

A. Gramsci, Scritti 1915-1921, nuovi contributi, a cura di S. Caprioglio, i Quaderni del «Corpo», 1968, p. 160

La testimonianza di Barbara Allason

Questa idea quindi è stata smentita dallo stesso segretario del PCd’ I, la domanda rimane allora come si arrivati a questo binomio. Certamente il nome di Gramsci circolava durante il ventennio tra gli intellettuali torinesi e nei circoli de « La rivoluzione liberale» un esempio di questo accostamento tra Gramsci e Gobetti sin può trovare in Barbara Allason, in cui scrive:

In quel tempo si parlò molto del sodalizio Gramsci-Gobetti che fu criticato e incompreso e dai collaboratori del’Ordine nuovo e da quelli di Rivoluzione liberale. Io ne  chiesi una volta a Piero, ed egli mi disse: «Gramsci è una delle più limpide intelligenze  e dei più grandi caratteri che esistano oggi in Italia. Io ho molto appreso da lui».

B. Allason, Memorie di un’antifascista, Graphot, 2008,  p.21

Calosso e Vigolongo: La nascita del binnomio Gramsci-Gobetti

Umberto Calosso

Un ruolo certamente determinante nella costruzione di questo accostamento è sicuramente quello di intellettuali formatisi in zona di confine tra l’influenza gramsciana e  quella gobettiana come Andrea Vigolongo e Umberto Calosso.

Il primo dei due intellettuali citati Andrea Vigolongo, giovane socialista  era stato compagno di scuola di Gobetti e fu lui a presentare Gobetti e Gramsci. Nelle notarelle gobettiane, in cui la moglie Giovanna Viglongo, emerge in modo netto questo accostamento tra il giovane intellettuale liberale e  l’intellettuale comunista.

Un passaggio si ha con il secondo intellettuale citato,  Umberto Calosso  il 14 agosto 1933  scrive un articolo nel Quaderno n. 8 di Giustizia e Libertà su Gramsci  e l’ Ordine Nuovo in cui conclude il suo articolo con questa affermazione:

In un certo senso «Rivoluzione liberale» fu l’erede de «L’Ordine Nuovo» . E non ostante la morte immatura di Gobetti e l’agonia crudele di Gramsci, noi crediamo che questa eredità sia tuttora operante in noi, corretta delle sue negatività e integrata dall’esperienza animosa che è ogni giorno nuova e senza passato.

U. Calosso, Gramsci e L’Ordine Nuovo, in Quaderno n. 8 di Giustizia e libertà, agosto 1933 p. 79

Questi  giudizi su Gobetti hanno  portato nel secondo dopoguerra al successo del binomio tra il comunista e il liberale. Questo binomio  è stato oggetto  di numerosi studi che hanno  portato in alcuni i  casi  ad una mitizzazione di questo rapporto, volute in modo diretto o indiretto dal PCI.

Francesco Sunil Sbalchiero

Bibliografia

G. Viglongo, Notarelle gobettiane, Robin Edizioni

G. Scroccu, Piero Gobetti nella storia d’Italia. Una biografia politica e culturale, Le Monnier, 2022

P. Spriano, Intervista sulla storia del Pci, ( a cura di) S. Colarizi, Laterza, 19179

C. Pianciola, Piero Gobetti. Una passione libertaria, editrice Il Punto, 1998

Gobetti, Ruffini e il libro Diritti di libertà

Articolo in Evidenza

Pubblico questo articolo su Gobetti e Ruffini che era stato pubblicato sul sito Eventi Dimenticati.

Gobetti in uno dei suoi ultimi scritti, il 23 gennaio 1926 per la rivista settimanale Conscientia di Gangale, definì Francesco Ruffini come uno dei «tre uomini europei» della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Gli altri due secondo il giovane intellettuale torinese erano Einaudi e Mosca. Gobetti frequentò il  suo corso e sostenne l’esame finale,  ma la collaborazione tra i due iniziò solamente alcuni anni più  tardi.

Con Francesco Ruffini non si incrinarono i rapporti,  dopo l’avvento del fascismo come con altri intellettuali riferimenti culturali di Gobetti; fu proprio in quegli anni che iniziò tra di loro la collaborazione.

Le prime collaborazioni con Francesco Ruffini

Una prima collaborazione tra i due avvenne – secondo il ricordo  di Barbara Allason – in occasione di un incontro del ciclo di conferenze sull’attualità politica organizzato da Gobetti  nel 1923 alla Mole Antonelliana.

Successivamente il nome di Francesco Ruffini apparve in un articolo su «Rivoluzione Liberale» dal titolo Le origini della proporzionale scritto in occasione dell’approvazione, nei primi mesi del 1925, della riforma elettorale voluta dal fascismo che introduceva il sistema uninominale maggioritario.

 L’articolo di Ruffini venne pubblicato all’interno nel numero di febbraio della rivista di Gobetti dedicato alla commemorazione della proporzionale, in  cui vennero pubblicati articoli anche di Sturzo, Salvemini,  Ansaldo,  Morra di Lavriano e Dorso.

Nel suo articolo Ruffini ribadì gli argomenti liberali a sostegno della legge elettorale proporzionale, da lui già sostenuti nel libro Guerre e riforme costituzionali. In particolare, nell’articolo si sosteneva la capacità della proporzionale di garantire nella fase d’ingresso della masse in politica, la rappresentanza delle élite della società.

Gobetti e la scelta di pubblicare il libro Diritti di Libertà

Nel 1925 Gobetti scelse di pubblicare alcune opere di letteratura come L’antologia dei poeti catalani contemporane (1845-1925)  curata da Cesare Giardini  e l’Antologia della  lirica tedesca contemporanea curata da Elio Gianturco. 

Con questi due libri Gobetti stava preparando una situazione favorevole per il successo dei suoi libri all’estero –  l’ondata repressiva del fascismo si stava riflettendo sul mercato produttivo e distributivo sulle espressioni culturali di opposizione.

Scelse, per questa ragione, di pubblicare due ultimi testi politici di queste edizioni, ovvero La Libertà di Francesco Saverio Nitti e i Diritti di libertà di Francesco Ruffini. La proposta di Gobetti  al giurista sulla preparazione del volume avvenne probabilmente nel marzo- aprile del 1925 e il volume fu concluso in autunno.

Francesco Ruffini e il libro Diritti di libertà

Diritti di libertà fu pubblicato nel 1926, ma nelle librerie divenne subito  introvabile e circolò solamente in modo clandestino. Il libro non poté essere segnalo da Rivoluzione Liberale in quanto  aveva già cessato le sue pubblicazioni. Venne quindi segnalato sul Baretti nel dicembre 1925 come «saggio completamente inedito sulle costituzioni contemporanee».

Il volume raccoglie  molte delle idee e delle critiche contro il fascismo fatte da Francesco Ruffini al Senato, in particolare nella seduta del 19 novembre e dei discorsi del 15 e 19 dicembre che hanno ricevuto delle repliche anche da Mussolini.

Un capitolo del volume fu utilizzato da Francesco Ruffini anche per un articolo destinato al Corriere della Sera intitolato Nuove e vecchie Costituzioni, ma l’edizione contenente l’articolo fu sequestrata. Quello fu anche l’ultimo articolo del giurista che infatti cessò la sua collaborazione con il Corriere della Sera come Einaudi e Sforza dopo l’estromissione di Albertini dalla direzione del Giornale.

La parte di una trilogia

Il libro Diritti di liberà non va considerato  solamente come l’espressione organica dell’impegno politico dell’autore, ma come il proseguo di una trilogia scritta dal giurista iniziata con La libertà religiosa, in seguito con Storia dell’idea – pubblicato nel 1901 – e  proseguita successivamente con Corso sulla libertà religiosa come diritti pubblico  uscito in volume nel 1924. Queste due opere rielaborano delle idee di fondo che con il libro pubblicato per la casa editrice di Gobetti trovarono la loro applicazione nella complessiva teoria della costituzione e dello Stato.

Ruffini, in questa opera, prende una netta posizione sui caratteri stessi dell’origine del Regno d’Italia e l’innovazione avvenuta attraverso i diversi plebisciti dello Statuto Albertino.

Inoltre Ruffini  cercò di contrastare la rimozione che la cultura giuridica stava operando contro ogni voce non allineata con estremismo statalista di origine germanica,  sostenuto anche dal fascismo, ma che era già stato adottato  precedentemente nel periodo precedente al fascismo.

La circolazione sotterranea lo rese uno dei testi  alla base dell’educazione antifascista per i giovani che cercarono sfuggire all’indottrinamento del regime, anche se nel secondo dopoguerra i concetti espressi erano ormai superati.

Bibliografia:

P. Bagnoli, Piero Calamandrei. L’uomo del ponte,  Fuori onda, Firenze, 2012

N. Bobbio,  Trent’anni di storia della  cultura a Torino (1920-1950), CRT, Torino, 1977

N. Bobbio, L’ombra di Francesco Ruffini, in Nuova Antologia , 2157, Gennaio-marzo, Le Monnier, Firenze, 1986

M. A. Frabotta, Gobetti. L’editore giovane, Il Mulino , Bologna, 1988.

A. Fragioni, Francesco Ruffini. Una biografia intellettuale,  Il Mulino, Bologna, 2017

F. Ruffini, Diritti di libertà, (Postfazione di) M. Dogliani, Edizioni di Storia e Letteratura,

Articoli su Gobetti:

Piero Gobetti, l’editore come un creatore

Gobetti e il giudizio sul Partito popolare

Francesco Sunil Sbalchiero

15 libri consigliati editi nel 2023

Articolo in Evidenza

Volevo iniziare l’anno nuovo consigliando alcuni autori, periodici e libri che mi hanno particolarmente colpito nel 2023.

Maria Zambrano

Allieva di Ortega y Gasset, impegnata nel rinnovamento della vita politica e culturale della Spagna con l’istaurarsi della dittatura franchista prese la via dell’esilio. Con la fine del franchismo si impegno nella difesa della giovane democrazia spagnola

René Girard

Antropologo e critico letterario, ha insegnato Letteratura comparata alla Stanford University. Tra i numerosi saggi tradotti in italiano, ricordiamo: La violenza e il sacro (Adelphi, 1980),  Portando Clausewitz all’estremo (Adelphi, 2008) e  Violenza e religione. Causa o effetto? (Raffaello Cortina, 2011).

Umberto Campagnolo

Filosofo e docente universitario, nel 1933 andò in esilio a Ginevra dove conseguì il dottorato con Hans Kelsen presso l’Institut Internationalde Hautes études. Tornato in Italia nel 1940 grazie all’aiuto di Adriano Olivetti, con l’incarico di organizzare la biblioteca all’iterno dell afabbrica e avviare l’attività della casa editrice comunità, nel 1943 ottenne l’incarico di storia delle dottrine politiche all’Università di Padova. Sull’argomento consiglio la recente biografia di Fabio Guidali, Un intellettuale europeo. Umberto Campagnolo tra antifascismo e guerra fredda, Pacini, 2023

Un nuovo periodico

Altopiano. Rivista di analisi politica

Nuova rivista interdisciplinare di analisi politica, diretta da Marco Almagisti professore di Scienza della Politica all’Università di Padova, nata per favorire la comprensione dei fenomeni che caratterizzano questi anni di grandi cambiamenti.

15 LIBRI DEL 2023

1- Vanessa Maggi, La città italianissima. Trieste nel dibattito politico del dopoguerra, Pacini editore, 2023

2- Luigi Giorgi, Giuseppe Dossetti. La politica come missione, Carocci, 2023

3-Paolo Pombeni, Guido Formigoni, Giorgio Vecchio, Storia della Democrazia cristiana 1943-1993, Il Mulino, 2023

4-Orlic Mila, Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani, Viella, 2023

5- Luca Baldissara, Italia 1943. La guerra continua, Il Mulino, 2023

6- Sergio Luzzatto, Dolore e furore. Una storia delle Brigate Rosse, Einaudi, 2023

7- Massimo Baioni ( a cura di) Città mito. Luoghi del Novecento politico italiano, Carocci, 2023

8- Bruna Bianchi, Non resistere al male con il male. Obiezione di coscienza e paifismo0 nel pensiero di Tolstoj, Biblion edizioni,2023

9-Maurizio Pagano, Le radici de liberalsocialismo. Il percorso intellettuale e politico di Aldo Capitini e Guido Calogero, Pacini, 2023

10-Paolo D’Angelo, Benedetto Croce, la biografia. Gli anni 1866-1918, Il Mulino, 2023

11-Walter Bruno Renato Toscano, Pantere Nere, America bianca, Ombre Corte, 2023

12-Pier Giorgio Zunino, Gadda, Montale e il Fascismo, Laterza,2023

13- Massimo L. Salvadori, L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio cent’anni dopo (1924-2024), Donzelli, 2023

14- Mario Martini, L’altra via di Aldo Capitini, Aras, 2023

15- Marta Margotti, Cattolici a lavoro. Primo Mazzolari, cattolicesimo italiano e questione sociale nel secondo dopoguerra, Morcelliana, 2023

libri gobettiani:

Cesare Pianciola, La persona laica. Norberto Bobbio nel Novecento filosofico, Biblion,2023

Piero Gobetti, Carteggio 1924, ( cura di ) E. Alessandrone Perona, Einaudi,2023

Piero Gobetti, L’editore ideale, Aras, 2023

Berlusconi, i club “ Forza Italia” e la discesa in campo

Articolo in Evidenza

Pubblico un mio vecchio articolo scritto per TOmorrow e Aggiornamenti storici scritto nel 2017 su Berlusconi e i club “Forza italia”.

La situazione politica italiana

Alla fine degli anni ’80 il sistema politico italiano entrò definitivamente in crisi. Tutti i maggiori partiti erano in crisi o in momento di cambiamento, dovuto anche al mutamento della situazione internazionale.

In questa situazione però l’Italia negli anni ‘ 80 era in una fase economicamente positiva l’industria nel 1988 brindava all’aumento della produzione che aveva segnato un +6% e non erano solo il comparto dell’auto e della siderurgia a favorire una buona economia; la prospettiva era quello di un nuovo miracolo economico tanto che il 7 luglio 1989 “la Repubblica” titolava:” Italia il gigante d’Europa.”

La situazione a livello politico era destinata in giro di breve tempo, circa quattro anni , a cambiare per due motivi. Il primo è da imputare al cambiamento avvenuto nel  corso degli anni ’80 nella società italiana, che  era mutata diventando una società post-ideologica, dove i partiti con base ideologica , di massa e strutturati entrano in crisi.

Il secondo motivo è legato al sistema politico che era in crisi almeno da un decennio, ma aveva resistito per far fronte all’emergenza legata agli anni di piombo garantendo così la sopravvivenza della  Repubblica dei partiti”. Quindi tutti i maggiori partiti italiani all’inizio degli anni ’90 cessarono di esistere o cambiarono; questo fu dovuto alla fase di cambiamento internazionale, ad una loro crisi identità interna e dai fatti di Tangentopoli.

La XI legislatura

Con l’inizio della XI legislatura, l’ultima della prima Repubblica, la partitocrazia era a pezzi; infatti dai risultati elettorali,  il partito  di maggioranza relativa la Dc da quasi cinquant’anni,  scese intorno al 20 % e anche il Psi ebbe un lieve calo, ma continuò il processo già avviatosi negli anni 80 della meridionalizzazione del consenso di questi due partiti.

Il Partito democratico di sinistra e Rifondazione comunista  ebbe un calo di voti soprattutto al nord dove emerse la Lega.

Questa situazione, l’inizio dello scandalo di Mani pulite e l’attentato a Falcone  non resero più possibile una riedizione delle vecchie maggioranze e condizionò  la corsa al Quirinale dopo le dimissioni anticipate di Cossiga.  In questa condizione anche se Craxi rivendicava la presidenza del consiglio fu costretto dalla situazione a proporre una terna di nomi quali: De Michelis, Martelli e Amato;  il nuovo Presidente della Repubblica Osacar Luigi Scalfaro diede l’incarico ad Amato di formare il Governo. Il governo Amato era  formato da una maggioranza composta da un quadri partito: Dc Psi Psdi Pli, ma la crisi interna alla Dc portò alla creazione di difficoltà, dovute ai franchi tiratori delle varie correnti, creando di fatto una maggioranza parallela composta dai democristiani di sinistra, i pattisti di “Segni”, Pds,  dalla Rete, dai Verdi e dalla lista Panella. Questa situazione complicata venne resa più difficile con la scadenza di Maastricht.

La situazione di Berlusconi

Il crollo della partitocrazia portò alla fine del 1993 all’entrata in politica di Silvio Berlusconi, anche se parte delle premesse di questa entrata nella scena politica sono da ricercare fin dalla metà degli anni 80, quando il suo impero televisivo era decollato anche grazie alla legge Mammì, che aveva sancito  la nascita di un duo-polio Mediaset e Rai. Ciò aveva provocato forti polemiche con le sinistre, che contestavano il monopolio dell’informazione visto che Berlusconi  stava acquistando in quello stesso periodo il controllo di una delle più importanti case editrici cioè la Mondadori.  A questo veniva data una forte impronta politica considerata l’amicizia tra il magnate della televisione e Craxi.

Questa situazione venne messa in discussione da Tangentopoli poiché quando il Pds e l’intera galassia dei movimenti antipartitocratici si erano impegnati per  smantellare le cittadelle  dei media cominciando dalla Rai, si era messa in cantiere una legge antitrust sulla pubblicità, prospettiva questa  che non poteva non allarmare Berlusconi. Il Cavaliere aveva tutte le risorse finanziarie, strumenti organizzativi e una carica personale che nessun altro leader poteva vantare in quel momento. Quindi gli restava solo da decidere se investire se stesso di un ruolo politico o delegare tale compito a qualcun altro, mettendo a disposizione le enormi risorse della Finivest, un gruppo aziendale con un giro di affari di quasi 22.000 miliardi (di vecchie lire), composto da 300 aziende  organizzate in 8 divisioni.

La pianificazione dell’operazione politica di Berlusconi

La pianificazione dell’operazione politica di Silvio Berlusconi avvenne nel giugno del 1993, subito dopo la vittoria delle sinistre alle amministrative nella primavera di quell’anno. Berlusconi era convinto che la gran parte degli italiani non fosse di sinistra e  iniziò a pensare che gli elettori moderati erano allarmati dalla vittoria delle sinistre. Il sostegno dei moderati alle amministrative era andato alla sinistra perché aveva rappresentato in quel momento l’offerta migliore.

A partire dal luglio 1993 Berlusconi sicuramente cominciò a pensare di entrare in politica (anche se la questione della sua decisione di entrare in politica è stata controversa; alcune persone vicine a lui come Marcello dell’Utri e Giuliano Urbani fanno risalire la decisione alla primavera del 1993).

In un’ intervista al quotidiano “la Repubblica” il 28 luglio 1993, illustrò il proprio punto di vista sulla politica e sui cambiamenti intercorsi a livello elettorale e dei partiti.

Berlusconi rivelò inoltre che in quelle settimane stava incontrando in diverse città italiane accademici, imprenditori e giornalisti che condividevano idee liberali e democratiche.

Questi incontri avevano  lo scopo di convincere della necessità di selezionare in modo rapido la nuova classe dirigente che fosse in grado di sbarrare la strada alle sinistre, uscite vincenti dalle amministrative del 1993, anche se la Lega aveva trionfato a Milano e in molte città del Nord e il Ms,i che l’anno prima era fermo al 6%,nel 1993 raggiunse e superò il 45% nei ballottaggi di Roma e Napoli e si avviava a trasformarsi in Alleanza Nazionale .

Le idee di Berlusconi

Nell’estate del 1993 in numerose interviste Berlusconi come imprenditore si disse preoccupato della situazione politica. Urbani nel settembre fondò l’associazione “Alla ricerca di un buongoverno”, che divenne il luogo d’incontro e di raccolta delle idee di alcuni intellettuali e anche imprenditori. Il punto d’incontro fondato da  Urbani cercava di riprendere alcune idee che in Italia non avevano avuto successo negli anni ‘80, ma che erano state affrontate con successo  in Gran Bretagna e negli Stati Uniti da Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

Le idee espresse da questo gruppo di intellettuali e imprenditori riguardavano il ridimensionamento del ruolo dello Stato, l’ammodernamento  e la semplificazione della burocrazia pubblica, la deregulation economica, la disciplina di bilancio, i tagli fiscali, la riduzione delle risorse pubbliche e il welfare. Queste idee venero riprese poi come  riferimento ideologico dai club di Forza Italia.

Successivamente l’altro momento formale fu la nascita il 25 novembre del 1993, dell’Associazione nazionale Forza Italia (ANFI) presieduta dal manager Fininvest Angelo Codignoni, alla quale fecero capo i club Forza Italia;  il primo club fu inaugurato da Berlusconi il 9 dicembre 1993 a Brugherio, dove aveva realizzato il suo primo intervento edilizio, dando in questo modo un messaggio chiaro di nuovo inizio, e solo il 18 gennaio 1994 venne fondato il Movimento politico Forza Italia.

Berlusconi e i club di Forza Italia

 L’esperienza dei club « Forza Italia!»  ricevette grande attenzione dai mezzi di comunicazione ed ebbe un così ampio successo, che per alcuni mesi Anfi non fu in grado di vagliare i moduli di adesione ricevuti da parte di migliaia aspiranti presidenti di Club.  Oltre al coordinamento centrale offerto dall’ Anfi e a livello locale dai club, un ruolo importante nella selezione della classe dirigente e il coordinamento  fu curata da Programma Italia, un’ azienda del gruppo Fininvest che si occupava di commercializzazione di servizi finanziari  ed assicurativi.

Programma Italia poteva contare su una vasta rete nazionale di punti vendita, clienti e contatti. I promotori che volontariamente parteciparono a tale iniziativa, si mobilitarono per diffondere presso i propri clienti le informazioni, per fondare i club di Forza Italia attraverso un opuscolo intitolato “documentazione necessaria per la costituzione di un Club Forza Italia.”  I dati sul numero di club fondati in questa prima fase convulsa  non ci sono, gli unici dati raccolti dall’ANFI risalgono alla Convention nazionale a Roma del 6 febbraio del 1994 e in quel momento si contavano 6840 club esistenti;  il primato era tenuto dalla Lombardia con 1146 club, seguita dalla Sicilia con 288 club. I club si finanziavano attraverso le quote di adesione di 25.000 lire, attraverso donazioni di aderenti e simpatizzanti.

L’ANFI non sovvenzionò minimamente i club e furono i presidenti dei club che versarono soldi all’ANFI attraverso l’acquisto del kit del presidente una valigetta contente dei gadget.

All’interno del disegno politico di Berlusconi i club ebbero una serie di importanti funzioni: erano le vetrine fisiche in cui poteva essere venduto il prodotto Forza Italia in qualsiasi paese poiché gli abitanti erano  già incuriositi dalla pubblicità, e inoltre furono fondamentali per Berlusconi per fargli guadagnare credibilità politica tra la gente considerandole come una realtà aperta e sensibile,  tanto che con l’avvicinamento alle elezioni i club aumentarono dando un’idea di Forza Italia come un movimento che esisteva da tempo.

Infine la scelta di “scendere in campo”, non è stato il frutto di una decisione rapida, ma fu pensata e preparata; era avvertibile da tempo, e Berlusconi scese in campo utilizzando tutti i mezzi messi a disposizione da Fininvest.

Bibliografia

Piero Ignazi, Vent’anni dopo, il Mulino 2014

Simona Colarizi, Storia politica della Repubblica, Laterza 2007

“Quando Berlusconi progettava Forza Italia”, Filippo Ceccarelli, 13 novembre 2008

Guido Crainz, il paese reale, Donzelli, Milano

Emanuela Poli, Forza Italia, Il Mulino, Bologna, 2001

Ultimo Articolo

https://storiapolitica.altervista.org/gobetti-e-il-giudizio-sul-partito-popolare/

Gobetti e il giudizio sul Partito popolare

Articolo in Evidenza

Piero Gobetti come protagonista del suo tempo e acuto osservatore  si trovò a doversi confrontare con l’esperienze politiche del primo dopoguerra  tra queste vi è  il Partito  popolare italiano fondato da don Luigi Sturzo nel febbraio 1919.

Gobetti e il giudizio critico iniziale verso il Partito popolare

Gobetti si occupo del Ppi e della figura di Sturzo fin  dalla sua  prima rivista «Energie Nove» . I  primi giudizi  del giovane intellettuale  sul Ppi furono severi e riprendevano idee e perplessità   comuni nella cultura politica  liberale. Molti liberali,  infatti rievocarono l’opposizione della Chiesa al processo di unificazione italiana.

Dall’ inizio del 1919 all’estate del 1922  nei suoi giudizi Gobetti non riconosceva al Ppi alcuna forma autonomia dalle gerarchie ecclesiastiche e vedeva  semplicemente nel Ppi  la  longa manus degli  ambienti vaticani nella politica italiana.

Queste idee sul Ppi vengono affermate  da Gobetti anche nell’articolo La nostra fede , che inaugura la seconda serie della prima rivista diretta dal giovane intellettuale torinese   Energie nove,  in cui scrive:

Data la rivelazione di verità di cui la Chiesa è depositaria esclusiva, non ci può essere altra logica è depositaria esclusiva, non ci può essere altra logica conseguenza fuori dall’assolutismo. [1]

Gobetti attribuendo alla Chiesa il carattere dell’assolutismo , sosteneva che visto la scarsa autonomia dalla gerarchia ecclesiastica del Ppi, anche il partito di Sturzo aveva questo carattere. Queste idee sul Ppi vengono riaffermate da Gobetti anche nell’articolo del 1920, La rivoluzione italiana. Discorso ai collaboratori di Energie Nove   in cui il Ppi viene definito: «il rappresentante del dogmatismo e della diseducazione nel mondo del pensiero moderno»[2].

Gobetti e il cambiamento di giudizio sul Ppi

L’intellettuale torinese passo  da una posizione documentata di sospetto ad una posizione documentata di rispetto cercando di capire l’opera e la figura di Sturzo e  il ruolo del popolarismo.  I primi cambiamenti di giudizi di Gobetti sul Ppi iniziarono già con un breve articolo Popolari e reazione del 16 aprile 1922 che può essere un articolo  in cui il pensiero di Gobetti

In questa breve nota del 16 aprile Gobetti sosteneva che al di la delle intenzioni falsamente democratiche e populiste del Ppi e della gerarchia ecclesiastica le loro idee e azioni potevano avere una funzione positiva.

I popolari, secondo Gobetti proponevano idee di democrazia, libertà e affermavano l’aunomia della sfera politica e quella religiosa senza credere  veramente a queste idee, ma credevano a queste idee le masse a cui loro si rivolgevano.  L’intellettuale torinese  su questo scrive:

Il partito di don Sturzo sarebbe diventato, nonostante  tutte le intenzioni, il primo passo verso il mondo moderno, la scuola elementare, l’abbecedario della liberta e dell’eresia.[3]

L’influenza di Gramsci  nel cambiamento di giudizio di Gobetti

Nell’articolo Popolari e reazione  per lo stile, l’impostazione e l’utilizzo dell’idea di  come l’azione del Ppi porti ad un «rovesciamento della praxis»  vi è un parallelismo con l’articolo di Gramsci I popolari comparso sull’”Ordine nuovo” il 1 novembre 1919.

Questo articolo Gramsci in cui esprime la sua opinione sul Partito popolare era noto a Gobetti tanto che verrà riprodotto anche sulla “Rivoluzione liberale” il 9 luglio 1922. L’influenza di Gramsci e  i contatti con col movimento orino vista torinese poteranno Gobetti ad essere più sensibile ai problemi dei movimenti di massa.

Tutti questi elementi contribuirono al cambiamento di giudizio di Gobetti, ma non furono la causa principale di questo cambiamento e vi furono altri influssi. Dopo l’articolo Popolari e reazione l’intellettuale torinese abbandonò anche  l’impostazione gramsciana del suo discorso sul partito di Luigi Sturzo.

L’influenza del maestro  Salvemini e il momento storico

Un ruolo importante sul mutamento di giudizio di Gobetti fu quella del suo maestro Gaetano Salvemini che da diverso tempo seguiva con attenzione le vicende de movimento cattolico  italiano e già nel 1898 sulla Critica Sciale aveva pubblicato un saggio dal titolo Avvenire del partito cattolico.

Salvemini nel periodo di mutamento del pensiero del giovane intellettuale torinese pubblicò  proprio sulla Rivoluzione liberale il 12 marzo 1922  un articolo   dal titolo Il Partito Popolare  e fu il primo importante articolo sul tema apparso sulla rivista gobettiana.  Salvemini nell’articolo sottolineava le tendenze cattolico progressiste ereditate dalla prima Democrazia Cristiana e il ruolo svolto da Sturzo nel partito.

Un altro aspetto non secondario di cui  tenere conto nel mutamento dell’idee di Gobetti è il contesto politico in cui avviene cioè in una fase di  crescente successo del partito fascista e l’inizio della sua opposizione al fascismo.

La rivalutazione gobettiana

Gobetti non rivalutò tutto il Partito popolare, ma solamente alcune tendenze presenti all’interno del partito. Il criterio con cui Gobetti operò questa scelta fu l’accettazione da parte degli esponneti del movimento cattolico  di alcuni principi del liberalismo, del liberismo e della lotta politica in una società pluralistica.

La parte del Ppi che accettava questi principi avrebbe potuto svolgere una funzione liberale nel dibattito politico e nella società italiana. Contrapponendosi in questo modo al fascismo. Il giudizio di Gobetti rimaneva negativo verso la Chiesa in quanto inficiata da tendenze dogmatiche e teocratiche, inoltre il giovane intellettuale torinese criticava le aspirazioni e  i tentativi ad intervenire sulla vita pubblica italiana. Rimaneva anche critico verso la Cil,  la confederazione sindacale di ispirazione cattolica per il suo interclassismo  che Gobetti riteneva incompatibile con la sua idee liberali. Nel suo libro  La rivoluzione liberale del 1924 su questo argomento scrive:

Il sindacalismo bianco mancando di uno spirito battagliero di classe, fu sfruttato dagli industriali  come un espediente della resistenza  agli operai estremisti, alla stregua dei krumiri[4]

La permanenza di alcuni elementi critici nel Ppi e la debolezza di fronte al fascismo

Nel suo saggio politico del 1924  La rivoluzione liberale,  il giovane intellettuale torinese  individua un ulteriore limite del Ppi  che considera fondamentale cioè quello che il Ppi non era riuscito a suscitare forze in grado di sostenere la sua classe dirigente. Inizialmente aveva supplito a questa mancanza con il sostegno di alcune gerarchie ecclesiastiche, ma queste avevano limitato le azioni positive di Sturzo e di altri esponenti  del PPI.

Successivamente  quando il sostegno delle gerarchie ecclesiastiche venne a mancare, il Ppi aveva visto venire la sua possibilità di autonomia e di azione nella vita politica italiana e questo portò il Ppi ad non essere in grado di resistere al fascismo

Gobetti e l’ultimo congresso del Ppi

Dopo della partenza per l’esilio di Sturzo il Partito popolare e il suo nuovo segretario Alcide De Gasperi vennero sottoposti a duri  attacchi dalla stampa fascista. Dopo il discorso del 3 gennaio 1925 la voci delle opposizioni vennero  progressivamente meno. .

In  questo  clima il Ppi riuscì a dare ancora  una prova di vitalità svolgendo il proprio congresso che si tenne a Roma in un ampio salone i via Monte della  Farina tra il 28 e il 30 giugno 1925.

Gobetti, anche in questa occasione,   fu un attento osservatore  e  pubblicò  un articolo  sull’argomento il 5 luglio 1925  in cui notò come  il congresso del Ppi fu uno dei più importanti di quelli svolti fino a quel momento.


Note e Bibliografia

[1] P. Gobetti, La nostra fede, (a cura di) G. Fontana, Aras, 2021 p. 45-46

[2] P. Gobetti, La rivoluzione italiana. Discorso ai collaboratori di Energie nove,Educazione nazionale, 30 novembre 1920, ora in P. Spriano, Scritti politici, Einaudi, Torino,  p. 189

[3]  Antuguelfo, Popolari e reazione, Rivoluzione liberale 16 aprile 1922 ora in P. Spriano (a cura di), Scritti politici, Einaudi, Torino  p. 318

[4] P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, (a cura di) E. Alessandrone Perona, Einaudi, Torino,2008 p. 76

P. Bagnoli, Luigi Sturzo e Piero Gobetti. Due apposte radici e una stessa idea di libertà, Salvatore Sciascia Editore, Caltanisetta-Roma, 2017

G. De Rosa, Il Partito popolare italiano, Laterza, Roma-Bari, 1974

M. A. Frabotta, Gobetti. L’editore giovane, Il Mulino, Bolgna, 1988

B. Gariglio, Progettare il postfascismo. Gobetti e i cattolici ( 1919-1926), Franco Angeli, Milano, 2003

B. Gariglio (a cura di), Con animo di liberale. Piero Gobetti e i popolari carteggi 1918-1926, Franco Angeli, Milano, 1997

Altri articoli su Gobetti:

Piero Gobetti, l’editore come un creatore

Enrico Berlinguer: intervista a Guido Liguori

Articolo in Evidenza

Oggi ricorre il centenario della nascita di Enrico Berlinguer e pubblico nuovamente l’intervista che avevo fatto al professor Guido Liguori sull’argomento in occasione del centenario del Pci.

Guido Liguori insegna Storia del pensiero politico contemporaneo, è presidente della International Gramsci Society Italia e capo-redattore della rivista di cultura politica “Critica Marxista”. I suoi interessi riguardano la storia del marxismo, il pensiero socialista, il pensiero politico italiano del Novecento, il pensiero di Gramsci e la sua diffusione nel mondo.

le sue pubblicazioni più recenti sono La morte del Pci (Manifestolibri 2009, tradotto in Francia); Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012 (Editori Riuniti 20122); Berlinguer rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico (Carocci 2014)

In quale ambiente si formò Enrico Berliguer? E quali furono i suoi punti di riferimento culturali e politici?

Enrico Berlinguer si formò in una facoltosa famiglia sassarese di forte orientamento democratico e anti-fascista. Il padre Mario, un avvocato, era stato un deputato del centro democratico prima dell’affermazione del fascismo, e sarà poi sottosegretario e deputato, prima azionista e poi socialista, dopo la sua caduta. Il giovane Enrico venne in contatto, negli anni tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, di un gruppo di proletari comunisti ed entrò così nel Pci. Lettore e poi studioso dei testi marxisti, presenti anche nella biblioteca paterna, guidò i giovani comunisti sassaresi nel periodo di trapasso dal fascismo alla prima fase della democrazia, sotto l’arcigno controllo degli Alleati. Finì anche in carcere, in seguito ai “moti per il pane” di Sassari, nel gennaio 1944.

Quali furono i primi suoi incarichi nel partito? Quali furono le sue posizioni verso l’URSS durante la segreteria di Togliatti?

Grazie al padre, Berlinguer conobbe Togliatti già nel 1944, appena liberato, e inizia a lavorare per il Pci a tempo pieno. Fu a Milano e a Roma, guidò ben presto il Fronte della Gioventù (organizzazione che riuniva tutti i giovani dei partiti antifascisti, del CNL) e poi la Federazione giovanile comunista italiana, e per questo fu anche membro della Direzione del Pci, il massimo organo politico del Partito. Berlinguer guidò anche, a inizio anni Cinquanta, la Federazione mondiale che riuniva tutti i movimenti giovanili comunisti del mondo, e per questo passava una settimana al mese a Budapest, dove gli uffici centrali di questo vastissimo movimento avevano sede.

Fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta Berlinguer fu certamente partecipe del mito dell’Unione Sovietica e di Stalin, che avevano corso in tutto il mondo, e non solo tra i comunisti: erano stati tra i principali artefici della sconfitta del nazifascismo.

Nel 1956, tuttavia, Berlinguer, ancora molto giovane, fu l’unico dirigente del vertice del Pci a prendere timidamente le difese di Giuseppe Di Vittorio, segretario della CGIL, messo sotto accusa per aver espresso dissenso verso l’invasione dell’Ungheria perpetrata dagli eserciti del Patto di Varsavia e dell’Urss. Per questo per qualche mese, probabilmente, fu mandato a svolgere incarichi non di primissimo piano (alla Scuola di partito di Frattocchie e poi in Sardegna) ma fu ben presto venne richiamato a Roma per lavorare a stretto contatto con Togliatti e Longo, che ne avevano grandissima stima.

In quale situazione era il Pci, quando Berlinguer divenne segretario? Quali furono le principali differenze rispetto al periodo precedente?

Dopo l’XI Congresso del PCI (1966), il primo dopo la morte di Togliatti, vinto dalla “destra” interna, amendoliana, contro la sinistra di Ingrao, Berlinguer fu accusato di non essersi schierato risolutamente contro la “sinistra”, anzi di aver cercato le vie di una conciliazione. Segretario in pectore uscì da questo congresso Giorgio Napolitano, delfino di Amendola, il solo col Segretario Luigi Longo a far parte di tutti gli organismi di vertice del Pci.

Dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia (1968), per stroncare un tentativo di “comunismo democratico” iniziato dal segretario del Partito comunista di quel paese, Dubcek, fortemente appoggiato da Longo, Berlinguer emerse nel vertice del Pci come il più risoluto critico dell’invasione di Praga e dell’Unione Sovietica. Anche per questo fu scelto da Longo (colpito da un ictus) come Vice-Segretario (1969) e Segretario in pectore. Divenne infatti Segretario nel XIII Congresso del 1972.

Quale fu il rapporto con le due figure importanti nel partito come Pietro Ingrao e Giorgio Amendola?

Come ho scritto sopra, Berlinguer fu prima accusato di essere troppo “tenero” con le posizioni di Ingrao. Divenuto Segretario anche con il placet di Amendola, fu condizionato dall’ala amendoliana, soprattutto negli anni della politica del “compromesso storico”. Stabilì invece un nuovo, forte asse con Ingrao dopo il 1978, quando superò la politica della “solidarietà nazionale” e iniziò la stagione del “secondo Berlinguer”: anni caratterizzati da un tentativo di vera e propria rifondazione del Pci.

Dal rinnovato appoggio alle lotte operaie al discorso sulla “austerità (già nel 1977, discorso allora frainteso, ma vera e propria anticipazione delle successive critiche alla “crescita” illimitata dei paesi capitalistici occidentali a scapito del Terzo mondo), dalla celebre “questione morale”, ancora molto attuale, alle tesi sul rinnovamento della politica (che doveva essere più attenta alla società e ai movimenti), dal forte dialogo col femminismo all’appoggio al movimento per la pace, al dialogo con gli ecologisti, all’attenzione verso l’informatica, allora agli esordi: gli anni 1979-1984 sono un vero inizio di fondazione di un nuovo “partito nuovo” (come Togliatti aveva chiamato il suo partito, democratico e di massa, negli anni della democrazia post-fascista), di un Partito comunista fortemente rinnovato, vicino per molti versi alle tesi della “sinistra interna” di Ingrao.

Purtroppo Berlinguer morì improvvisamente nel giugno 1984 e la “rifondazione” del Pci da lui iniziata non fu continuata dai suoi successori. Molta parte del gruppo dirigente comunista aveva del resto manifestato la propria ostilità alle idee del “secondo Berlinguer”.

In che contesto Berlinguer iniziò a pensare al compromesso storico? Come venne accolta questa iniziativa di Berlinguer e del Pci dall’URSS?

La proposta del compromesso storico venne lanciata, come è noto, all’indomani del sanguinoso golpe, voluto dagli Stati Uniti, contro il Presidente socialista del Cile, Salvador Allende, a opera dell’esercito guidato dal generale Pinochet. Berlinguer si pose il problema di costruire uno schieramento progressista ampio, che evitasse il pericolo di un rigurgito reazionario e golpista, reale in Italia (basti pensare alla “strategia della tensione” e al golpe Borghese del 1970). Tale schieramento non poteva che comprendere “i cattolici”, da tutti assimilati alla Dc.

In realtà la strategia di un nuovo accordo coi cattolici era già in fase di gestazione ai vertici del Pci, sotto la spinta della destra amendoliana, come dimostra un numero speciale del «Contemporaneo» di «Rinascita» del giugno 1973, dedicato alla «questione democristiana». Si trattava di un ritorno alla classica politica di Togliatti, che nel dopoguerra aveva individuato nei cattolici non solo una componente essenziale della società italiana, ma anche nella Dc un possibile partner di governo. La guerra fredda aveva fatto naufragare il progetto. Riproporlo negli anni Settanta si trovò di fronte ancora una volta alla ferma ostilità degli Stati Uniti. Inoltre la Dc non era più solo e tanto il “partito cattolico”, quanto era divenuto il partito della borghesia italiana, il referente dell’industria pubblica e privata. Impossibilitata da tutti questi fattori a un vero e leale “dialogo” col Pci.

All’Urss non credo dispiacesse o desse fastidio il “compromesso storico”: Ciò che l’Urss non sopportava era il tentativo di creare un movimento comunista democratico a livello internazionale. Questa politica di Berlinguer prese prima il nome di “eurocomunismo”, poi di “terza via” o “terza fase”. Berlinguer era anche convinto che nel 1973 i sovietici avessero cercato di ucciderlo, tramite uno strano incidente stradale accaduto a Sofia, in Bulgaria, nel settembre. L’interprete seduto accanto a Berlinguer nell’auto travolta da un camion militare ci rimise la vita. Il sospetto di Berlinguer è plausibile: come dimostra l’invasione di Praga nel 1968 e il golpe in Cile nel 1972, Unione Sovietica e Stati Uniti si consideravano i gendarmi del mondo, i signori assoluti delle rispettive sfere di influenza, e mal sopportavano chi come Berlinguer (o anche Aldo Moro) tentava, prudentemente, di far saltare lo schema del mondo “diviso in due”. Quando l’URSS dimostrò, invadendo l’Afghanistan e provocando un “golpe” in Polonia, di voler proseguire su questa strada, Berlinguer – pur continuando sempre a professarsi comunista e respingendo al mittente ogni invito a farsi “socialdemocratico” – affermò che la «spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre» era ormai finita. Si doveva aprire una nuova fase, una terza fase (dopo quelle della Seconda e della terza Internazionale) di lotta per il socialismo, democratica, partecipata, non autoritaria. Un socialismo del “XXI secolo”, si sarebbe detto qualche anno più tardi. La morte improvvisa del leader dei comunisti italiani gli impedì di dare il proprio apporto a questa ricerca, un apporto che sarebbe stato certo rilevante. E di cui anche oggi è importante tener conto per una prospettiva democratica di costruzione del socialismo.

James Gregor e l’autopsia all’Intervista sul Fascismo di Renzo De Felice

Articolo in Evidenza

James Gregor è stato un’autorità riconosciuta a livello internazionale nello studio dei sistemi politici totalitari e del fascismo e si confronto a lungo con gli studiosi italiani e in modo particolare si confronto sia ponendo l’attenzione sugli aspetti critici sia sugli aspetti positivi con lo  storico italiano Renzo De Felice e la sua opera.

In una sua riflessione pubblicata negli annali della fondazione Ugo Spirito nel 1998 James Gregor  con queste parole ricorda Renzo de Felice:

Esistono pochi dubbi sul fatto che Renzo De Felice entrerà nelle fila di quegli immortali storici italiani  che, per secoli hanno contribuito a formare le tradizioni intellettuali dell’Occidente . La sua magistrale biografia di Benito Mussolini è che la storia di una vita. Essa è, infatti un reso conto fedele di  oltre un quarto di secolo di storia italiana.[1]

Gregor analizzo attentamente nel 1976 il libro-intervista di Renzo de Felice curato dallo storico americano Michael ledeen Intervista sul fascismo.

Le critiche all’Intervista sul fascismo

L’ intervista suscitò forti reazioni negative sia dalla storiografia marxista/comunista che De Felice critica per il suo conformismo sia da parte di alcuni intellettuali e storici di destra.

La storiografia marxista e comunista reagì all’Intervista con il volume curato da Nicola Tranfaglia Fascismo e capitalismo pubblicato nel del 1976. Gli autori dei saggi contenuti in questo volume rappresentavano i massimi esponenti della storiografia di sinistra italiana e  appartenevano a generazioni diverse dai più anziani Alatri, Quazza, Carocci nati nel primo dopoguerra, ai più giovani Rochat, Castronovo  e lo stesso Tranfaglia, inoltre vi era il coetaneo di De Felice, Enzo Collotti.

Le critiche da destra al libro intervista di Renzo De Felice  vennero raccolte nel volume Sei risposte a Renzo De Felice pubblicato dalla casa editrice Giovanni Volpe editore nel 1976 i cui saggi furono scritti da Bardèche, Eisermann, Errra, Freund, il Testimone anonimo pseudonimo di Giovanni Volpe e lo scienziato politico americano James Gregor.

La risposta di James Gregor

Nel suo saggio dal titolo Autopsia di un’intervista all’interno del volume Sei risposte a Renzo De Felice, lo scienziato politico americano James Gregor inizialmente analizza al situazione culturale in cui venne pubblicata l’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice. Gregor su questo scrive:

Uno dei motivi che hanno indotto il prof. De Felice a pubblicare la sua Intervista sul Fascismo  per un pubblico di lettori internazionali è stato il desiderio di «provocare» i colleghi, soddisfatti e formalisti, a rimeditare tutto il problema del fascismo italiano. Che la sua intervista abbia stuzzicato i suoi colleghi e il pubblico che legge è apparso evidente dalla immediata reazione suscitata dalla sua pubblicazione.[2]

Lo scienziato politico americano mette in dubbio il fatto che l’Intervista di De Felice abbia fatto realmente rimeditare il problema del fascismo italiano. In quanto i giudizi sono stati di incompetenza professionale, di avere oscure mire politiche e di insensibilità morale.

Gregor contro i giudizi morali

Dopo la prima in cui descrive le motivazioni e il contesto in cui Renzo De Felice pubblica l’ Intervista, Gregor pone il problema dei giudizi morali di chi studia fenomeni sociali e politici e come questi in alcuni casi sostituiscano l’indagine rigorosa. Su questo lo studioso americano dopo aver portato degli esempi assurdi porta un esempio più realistico e scrive:

Poco più lontana dell’assurdo, ma sempre animata dallo stesso impulso fazioso, è quella interpretazione che vede il fascismo come il prodotto di una «cosciente cospirazione» dei «magnati dell’alta finanza».[3]

Secondo Gregor chi sostiene questa  tesi non riesce a spiegare una parte consiste della storia d’Europa e del mondo e che sono queste le tesi demonologiche a cui De Felice Allude nell’Intervista sul fascismo.

Le osservazioni e critiche di Gregor all’Intervista

Nella parte centrale del suo saggio lo studioso americano contesta il fatto che molti studiosi abbiano criticato De Felice sulla sua idea di considerare il fascismo come un movimento rivoluzionario e inoltre pone l’attenzione come questa idea del fascismo come movimento rivoluzionario e di modernizzazione sia una novità emersa dagli studi di  De Felice.

A sostegno di queste tesi Gregor porta numerosi analisi fatte da alcuni leninisti contemporanei al fascismo. Il primo esempio portato dallo scienziato politico americano  è quello di Giulio Aquila che pur sostenendo la natura reazionaria e controrivoluzionaria del fascismo, ma ammetteva che a molti poteva apparire come rivoluzionario e che il fascismo aveva anche condotto una sua lotta contro le classe dirigente liberale.[4]

Le idee di Vajda e di  Galkin

Questo aspetto che notò Aquila del fascismo fu sostenuto con forza da alcuni leninisti stranieri citati  come esempio da Gregor  nel suo  saggio come  l’ungherese  Mihaly Vajda che sosteneva  che il fascismo era  in Italia «la sola soluzione progressista» nella situazione in cui si era trovata dopo il primo conflitto mondiale.[5] Sulle idee di Vajda, Gregor scrive:

Nel giudizio di Vajda, il fascismo italiano non solo aveva dunque caratteristiche «progressiste» e «moderne», ma era la sola soluzione progressista ai problemi economici dell’Italia, nel che troviamo un giudizio di gran lunga più scandaloso di qualsiasi cosa detta da De Felice.[6]

Un altro autore portato come esempio da Gregor sono le idee di Alexader Galkin  che nel suo saggio Capitalist Society and Fascism pur considerando il fascismo come «conservatore» sotenè che il fascismo «agì da garante dello sviluppo economico»[7]

Gregor porta questi esempi ed altri esempi per sostenere la sua idea che dovrebbe suscitare nessuno scandalo il libro intervista di Renzo De Felice perché esprime concetti che hanno espresso già altri studiosi precedenti e contemporanei.

Alcune considerazioni conclusive

Nella parte con conclusiva del suo saggio[8] esprime la sua idea sull’Intervista di De Felice e scrive:

Certo è che nell’intervista di De Felice, sono molte le cose meritevoli di un lungo esame e di una seria discussione. Molti dei suoi giudizi sono il risultato di una meditata familiarità con la maggior parte della letteratura professionale contemporanea, ed è difficile trovare un altro libro, altrettanto breve che dica di più agli italiani sulla loro storia recente.[9]

Gregor quindi riconosce già nel 1976 l’importanza degli studi sul fascismo di Renzo De Felice e riconosce allo storico italiano una conoscenza approfondita del fascismo, ma come spiega nel saggio del 1998 lo storico e lo scienziato politico e sociale hanno due prospettive diverse. Quindi uno storico Renzo De Felice difficilmente poteva proporre una definizione generica di fascismo.[10]

Sunil Sbalchiero


Note

[1] J. Gregor, Renzo De  Felice e l’interpretazione del fascismo, in Renzo De Felice e la storia come ricerca, Annale Fondazione Ugo Spirito, 1998 p. 237

[2] J. Gregor, Autopsia di un’intervista, in Sei risposte a Renzo de Felice, Giovanni Volpe Editore, 1976 p.129

[3] J. Gregor, Autopsia di un’intervista, in Sei risposte a Renzo de Felice, Giovanni Volpe Editore, 1976 p.131

[4] G. Aquila (ŠaŠ), Il fascismo italiano, in Il fascismo e i partiti politici italiani, (a cura di) R. De Felice, Le Lettere,  2005 p.293

[5] M. Vajda, The rise of Fascismin Italy and Germany, telos, 12,(1972), p.12

[6] J. Gregor, Autopsia di un’intervista, in Sei risposte a Renzo de Felice, Giovanni Volpe Editore, 1976 p.133

[7] Capitalist Society and Fascism

[8] J. Gregor, Autopsia di un’intervista, in Sei risposte a Renzo de Felice, Giovanni Volpe Editore, 1976.

[9] J. Gregor, Autopsia di un’intervista, in Sei risposte a Renzo de Felice, Giovanni Volpe Editore, 1976 p.142

[10] J. Gregor, Renzo De  Felice e l’interpretazione del fascismo, in Renzo De Felice e la storia come ricerca, Annale Fondazione Ugo Spirito, 1998 p. 249

Bibliografia:

A. Messina (a cura di), Conprendere il Novecento tra storia e scienze sociali . La ricerca di A. James Gregor, Rubbettino, 2021

Un’altra patria. Intervista a Marco Labbate

Articolo in Evidenza

Marco Labbate ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi umanistici all’Università di Urbino e collabora con il Centro studi Sereno Regis. Tra le sue più recenti pubblicazioni vorrei ricordare Fonderia Montecatini . Storia di una fabbrica pesarese (Futura, 2021),  un saggio all’interno del libro curato da Cesare Panizza e Silvia Cecchi Indagare l’Italia repubblicana. Momenti di una storia lunga 75 anni 1946-2021 (Aras, 2021) e il libro di cui parleremo oggi Un’altra patria. L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana.( Pacini editore, 2020)

Il tema della pace fu molto sentito nel dibattito dell’immediato secondo dopoguerra.  Questa sensibilità dopo due guerre mondiali portò ad una discussione nell’Assemblea  costituente anche del tema dell’obiezione di coscienza come alternativa al servizio militare? Quali culture politiche cercarono di portare l’attenzione su questo tema?

Si tratta di una discussione a mio avviso stupefacente. Pensi che all’epoca non ci sono obiettori, a parte lo sconosciuto pentecostale Rodrigo Castiello, né movimenti pacifisti consolidati. A chiedere il riconoscimento dell’obiezione di coscienza c’era solo l’ex-sacerdote modernista Giovanni Pioli e un Movimento per la riforma religiosa, appena costituito da Capitini. A raccogliere questi appelli e a portarli nell’Assemblea costituente nel maggio 1947 è il Partito socialista dei lavoratori italiani, staccatosi dalla casa madre con la scissione di Palazzo Barberini. Nelle persone di Arrigo Cairo, Umberto Calosso ed Ernesto Caporali cerca di far approvare in Costituzione un superamento del servizio militare obbligatorio e una riduzione delle spese militari. Riprendere in mano la tradizione antimilitarista del socialismo serve alla nuova formazione per marcare la distanza dal Partito socialista di Nenni. Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza viene introdotto da Caporali, in un emendamento a quello che sarebbe diventato l’articolo 52. Il suo intervento merita di essere riletto, per la sorprendente modernità: propone una visione larga di difesa della patria, che va oltre il mero aspetto militare. La questione rimane marginale ed è comprensibile: anche Caporali rivolge lo sguardo all’orizzonte inglese, proponendo una norma del futuro, per il momento quasi senza riscontri in Italia. Non vi erano spazi per questa proposta, in un quadro politico che la guerra fredda andava radicalizzando.

Il primo obiettore di coscienza  in Italia fu Pietro Pinna, che durante il processo venne difeso dall’avvocato torinese Bruno Segre, come venne vista questa vicenda nel dibattito pubblico?

Il caso Pinna rappresenta il passaggio dell’obiezione di coscienza, da momento privato, interamente risolto nel foro interiore e nel chiuso di un tribunale militare, ad atto pubblico. L’immagine di Pinna, nella sua irremovibile semplicità è potente. La stampa si interessa al suo caso inusuale: un ragazzo comune che compie un gesto così dirompente. Il conflitto sofocleo che si svolge nel tribunale militare di Torino tra l’autorità e l’obiettore viene raccontato diffusamente sui quotidiani e persino su rotocalchi nazional-popolari o su fogli sensazionalistici, come «Crimen». Il Paese si appassiona così alla sorte di questo ragazzo e prende posizione. Ma la forza della figura di Pinna da sola non sarebbe bastata: le autorità militari non avevano alcuna intenzione di farne un caso nazionale. Se questo accade è anche perché attorno a Capitini si raccoglie un movimento che divulga le notizie, coinvolge giornalisti e parlamentari. Oltre al già citato Giovanni Pioli vi sono altre importanti figure che sostengono l’obiettore: lo jesino Edmondo Marcucci, il poeta Guido Ceronetti (è un aspetto poco noto della sua storia), Umberto Calosso, che porta la questione di Pinna in Parlamento e assieme al cattolico Igino Giordani presenta la prima proposta di legge per riconoscere l’obiezione di coscienza, e, appunto, Bruno Segre. Non è solo è l’avvocato che difende Pinna e “inventa” lo schema difensivo per un reato non contemplato da nessun codice. Il mensile «L’Incontro», di cui è il direttore, diventa una voce assidua nel panorama dell’obiezione in Italia.

Il rifiuto di Pietro Pinna, fu anche influenzato dal filosofo Aldo Capitini. Quali furono altri intellettuali che intervennero su questo tema ? il filosofo politico torinese Norberto Bobbio intervenne su questo tema ?

 La relazione tra obiezione di coscienza e mondo intellettuale è presente fin dalle origini. L’obiezione di coscienza sorge come istanza morale e filosofica in un gruppo di intellettuali, che per ragioni di età, non possono fare obiezione. Al tempo stesso le frequenti censure che coinvolgono l’obiezione la legano alla libertà d’espressione, particolarmente cara agli intellettuali. Fin dall’inizio sostengono il suo riconoscimento figure di primo piano come Arturo Carlo Jemolo. I legami tra obiezione di coscienza e mondo intellettuale procedono a tratti, rafforzandosi quando appunto l’obiezione di coscienza entra in collisione con la limitazione delle libertà. L’Associazione per la libertà della cultura, che raccoglie personalità di rilievo come Guido Calogero, Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, dedica le dedica due importanti pubblicazioni nel 1962, dopo la censura del film di Autant Lara, Non uccidere. I manifesti contro le incriminazioni di Balducci o don Milani assomigliano a un elenco degli esponenti della cultura italiana di quegli anni. E ancora nel 1972 il digiuno di Pannella per il riconoscimento dell’obiezione ottiene il sostegno di un parterre internazionale di scrittori e intellettuali, tra cui tre premi Nobel. In Parlamento tra i protagonisti nel dibattito sulla legge si segnala per gli interventi di altissima levatura Franco Antonicelli. Quanto a Bobbio non assume un ruolo di primo piano, ma il suo contributo al dibattito attorno al film di Autant Lara, ha una valenza non trascurabile. Interviene alla Gam di Torino, in un’iniziativa organizzata dall’Unione culturale alla quale partecipano anche Bianca Guidetti Serra e Franco Antonicelli. Ci rimane solo la sua relazione, pubblicata nella raccolta di saggi Il Terzo assente. Secondo me si tratta tuttavia di un intervento fondamentale per la lucida chiarezza con cui affronta il tema. Evidenza i motivi su cui tradizionalmente si basava la giustificazione della guerra e ne dichiara il superamento di fronte alla novità rappresentata dall’era atomica che può portare all’annientamento della vita sulla terra: «Se interroghiamo la nostra coscienza» conclude «non possiamo più rifiutarci di riconoscere che oggi siamo, almeno in potenza, tutti quanti obiettori».

Nel suo libro fa molto riferimento al mondo cattolico, il tema della pace venne trattato per la prima volta in modo nuovo all’interno della Chiesa con l’enciclica di Giovanni  XXIII e poi ci fu il Concilio Vaticano II. Quali cambiamenti portò nel modo di affrontare il tema dell’obiezione di coscienza nel mondo cattolico ?

 Nella Pacem in terris l’obiezione di coscienza non viene trattata, ma l’impalcatura teologica dell’enciclica archivia la secolare dottrina della guerra giusta e del principio di presunzione, ovvero della competenza del giudizio sulla giustizia di una guerra alla sola autorità politica. Assieme alla nonviolenza, l’obiezione è tra i temi lasciati in eredità al Concilio Vaticano II. Nella Gaudium et spes riceve un riconoscimento molto parziale. Si tratta di una formula di compromesso tra il clero conservatore, che fino all’ultimo tenta di affossare anche questo statuto dimezzato, e quello progressista che chiede maggiore coraggio. Ma è comunque una prima breccia dall’effetto rivoluzionario. Se fino a quel momento, anche nei tribunali militari, si condannava l’obiezione di coscienza come incompatibile col punto di vista cattolico (i giudici teologi non erano figure rare!), ora non è più possibile. Non solo. Questa fessura si allarga rapidamente. Diversi alti prelati e vescovi prendono subito una posizione più avanzata che, alla luce della Gaudium et spes, è legittimata. Nella Popolarum progressio Paolo VI si spinge un poco oltre. Nel 1968 un organismo ufficiale, la Commissione pontificia Justitia et pax invita le comunità parrocchiali a dare il proprio sostegno agli obiettori. Nel 1971 il Sinodo della Conferenza episcopale avrebbe affermato di voler favorire la strategia della nonviolenza e chiesto di regolare mediante le leggi l’obiezione di coscienza.

Quale fu  invece la posizione sull’obiezione di coscienza del Pci, e vi fu una differenza di posizioni  successivamente con altri movimenti  di sinistra?

La posizione del Pci rispetto all’obiezione di coscienza è sostanzialmente di estraneità: l’obiezione di coscienza non è compatibile con la dottrina marxista-leninista, che riconosce la necessità storica della violenza rivoluzionaria, né con la sua storia resistenziale, né con l’approccio politico, che vede nella partecipazione del militante al servizio militare un dovere, ma anche un’opportunità di propaganda. Vi è poi una necessità del partito nuovo di Togliatti di essere rassicurante per i ceti moderati di cui intende intercettare il consenso. L’obiezione di coscienza non è dunque moneta di pregio, un comportamento individualista e borghese, al quale rivolge un’inscalfibile indifferenza. Nella pratica tuttavia il Pci porta avanti mobilitazioni di massa, affini all’obiezione di coscienza, come il rifiuto dei portuali di scaricare armi americane dopo la firma del Patto Atlantico o la distruzione pubblica delle «cartoline rosa» inviate dal ministero della Difesa ai congedati, per avvisarli di un possibile richiamo alle armi. Negli anni Sessanta la posizione del Pci si sfuma. Diventa più attento al dissenso cattolico e dunque anche all’obiezione di coscienza. Tuttavia la sua linea rimane quella del distacco. Le promesse di un’iniziativa parlamentare sul tema rimangono senza seguito. I giornali comunisti accendono l’attenzione sull’obiezione di coscienza soprattutto quando suscita contraddizioni nel campo cattolico. Non è un caso che a divulgare la Lettera ai cappellani di don Milani siano in prima battuta «l’Unità» e poi «Rinascita», imputata assieme al priore (compagnia poco gradita dal priore che non riteneva che una rivista comunista potesse fregiarsi di una battaglia per la libertà di coscienza). La freddezza tra Pci e obiezione di coscienza perdura anche al momento dell’approvazione della legge. Il Pci elabora una propria linea, intermedia tra quella restrittiva sostenuta dal governo, e le aperture presenti nella proposta socialista di Cipellini, ma sostanzialmente estranea al sentire degli obiettori. E almeno fino alla fine degli anni Settanta, quando l’Arci scende in campo su questo fronte, il Pci mantiene un certo distacco nei confronti del nuovo servizio civile.

Nel suo libro tratta anche di alcuni protagonisti ai margini come i testimoni di Geova e  la Chiesa valdese  che ruolo hanno avuto?

Si tratta di situazioni molto diverse. I testimoni di Geova sono poco inclini a dare risalto al loro gesto. Rifiutano in molti casi l’idea di un servizio civile e talvolta anche la stessa qualifica di obiettori. Chiedono infatti di essere esentati dal servizio militare come ministri di culto. Tuttavia la loro stessa presenza permette di mantenere viva l’istanza lungo tutta la storia repubblicana, anche quando dopo i casi di Pinna, Santi e degli anarchici Ferrua e Barbani, l’obiezione cade nel dimenticatoio. Pensiamo a questo unico dato: di 706 obiettori che si contano tra 1945 e 1972, 622 sono testimoni di Geova. La Chiesa valdese è invece una presenza attiva nel chiedere un riconoscimento dell’obiezione. È la prima chiesa italiana a prendere una posizione favorevole con il suo massimo organo, fin dalla fine degli anni Cinquanta. È l’esito di un dibattito interno cominciato ancor prima del caso di Pinna. Negli anni Sessanta la Chiesa valdese partecipa a iniziative, raccolte firme, petizioni anche a sostegno dei sacerdoti cattolici coinvolti nei processi, come padre Balducci o don Milani. Tuttavia non abbiamo obiettori valdesi almeno fino alla fine degli anni Sessanta, quando le componenti antimilitariste della contestazione irrompono anche nelle chiese. Mentre nel cattolicesimo i due percorsi paralleli, nella Chiesa valdese l’adesione personale all’obiezione di coscienza giunge con la sua politicizzazione, molti anni dopo rispetto all’impegno ideale per un suo riconoscimento.

L’obiezione di coscienza al servizio militare venne riconosciuta con la legge n. 772 del 1972 proposta dal deputato della sinistra Dc Giovanni  Marcora, in un fase politica dopo il sessantotto in cui vennero affermati molti diritti. Con questa legge, infatti  venne istituito anche il Servizio civile per gli obiettori coscienza come alternativa al servizio militare. Come il contesto politico e sociale influenzò il dibattito su questa legge ?

 La mobilitazione attorno all’obiezione di coscienza è fortemente influenzata dal Sessantotto. La contestazione dell’autorità che coinvolge scuola, fabbrica e famiglia non lascia immune l’esercito. Da poche decine di partecipanti le manifestazioni per l’obiezione coinvolgono centinaia, a volte migliaia di persone. Decisivo è l’apporto del Partito radicale che rispetto ai precedenti movimenti riesce a mobilitare masse consistenti, ben superiori al novero degli iscritti. Muta inoltre il linguaggio con cui i movimenti e gli obiettori parlano dell’obiezione di coscienza a cui ora danno un’accezione antimilitarista, inscrivendola nella lotta di classe. Ai nuovi obiettori politicizzati, i partiti di governo oppongono i “veri obiettori”, quelli che maturano la scelta nel loro animo, senza ostentarla, come i testimoni di Geova. Di questa contrapposizione rimane traccia nella legge che riconosce solo gli obiettori che adducono motivi filosofici e religiosi, non quelli politici. La nuova visibilità dell’obiezione di coscienza coinvolge anche i suoi avversari: le piazze nonviolente sono spesso assaltate dalla violenza neofascista che vuole arginarne la diffusione.

Piero Gobetti, l’editore come un creatore

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Editore ideale

Nella sua casa di via XX settembre, a Torino, Piero Gobetti appunta delle parole con cui suggella la sua proposta di editoria:

Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni più tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana, dopo aver scritto 10 lettere e 20 cartoline, rivedute le terze bozze del libro di Tilgher o di Nitti, preparati gli annunci editoriali per il libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo 3 correzioni, mandato via rassegnato dopo 40 minuti di discussione il tipografo che chiedeva un aumento di 10 lire per foglio, senza concederglielo; aiutato il facchino a scaricare le casse di libri arrivate troppo tardi quando ci sono solo più io ad aspettarlo, schiodata io stesso la prima cassa per vedere i primi esemplari e soffrire io solo del foglio che è sbiancato in una copia, e consolarmi che tutto il resto va bene, che né il legatore né il macchinista non han fatto nessuna gherminella […]. Penso un editore come un creatore. Creatore dal nulla[1].

E creatore, difatti, Gobetti lo sarà per la casa editrice che porta il suo nome e fondata il 25 marzo del 1923. L’intento è di creare il luogo di raccolta per quelle “energie nove”, parafrasando il nome della sua prima rivista, che emergono nel primo dopoguerra e che poi confluiscono nella militanza politico-culturale antifascista.

Quella di Gobetti è una concezione eclettica della professione editoriale: ha in mente una figura tuttofare, una sorta di artigiano dell’editoria che porta avanti un’attività condotta con slancio ed entusiasmo, calibrando la dimensione commerciale con quella dell’organizzazione della cultura. Quindi un’editoria libraria che ha come risultato un libro di cultura con una forte carica morale e educativa.

L’attività febbrile, Ossi di seppia, lo stupore di Carlo Levi

Quella dell’editore giovane, come spesso viene chiamato Gobetti, è una concezione moderna del fare libri. Attento osservatore del suo tempo, con uno sguardo sempre in avanti, è il primo a scommettere sul poeta di Genova che poi diventerà il Montale del premio Nobel: nel 1925 l’esordio della raccolta poetica Ossi di seppia è proprio con la Piero Gobetti Editore.

Il lavoro della casa editrice è frenetico, quasi come se Gobetti respirasse una qualche premonizione che lo avverte di non avere molto tempo a disposizione. Il catalogo si arricchisce di oltre un centinaio di pubblicazioni in tre anni, tra il 1923 e il 1925. Tanto che Carlo Levi, quando un giorno si reca in casa editrice e chiede di poter incontrare Piero Gobetti, è certo che l’editore sia un anziano. Resta invece sorpreso quando sulla porta un ragazzo con occhi vivacissimi e penetranti, una nuvola di ricci in testa, gli risponde: «Sono io».

Editoria come impegno antifascista

Piero Gobetti sceglie una grafica scarna per le proprie edizioni con l’intento di contrapporla all’eleganza editoriale e all’esasperato estetismo di quel periodo. Si tratta di una ruvidezza da intendere come essenzialità. È Felice Casorati a occuparsene e sempre lui disegna l’ex libris.

Si deve invece ad Augusto Monti il motto alfieriano TI MOI ΣΥΝ ΔΟΥΛOIΣΥΝ (“tì moi sun doulòisin?”; “che ho a che fare io con gli schiavi?”) che Gobetti decide di applicare in calce alle copertine dei libri per rimarcare ulteriormente il disegno antifascista. Difatti la Piero Gobetti Editore diventa l’approdo sicuro per gli autori che, a causa del clima di censura in atto nel Paese, vengono rifiutati dalla maggior parte degli editori. Vengono pubblicate opere di personalità come Luigi Sturzo o Francesco Saverio Nitti, noti per la loro opposizione politica a Mussolini. Bisogna ricordare, tra i tanti, anche il testo di Luigi Einaudi, Le lotte del lavoro, opera che si occupa delle origini del movimento operaio in Italia, o la monografia che Gobetti dedica a Matteotti all’indomani dell’omicidio.

Le censure da parte del regime proseguono fino alla diffida del 3 febbraio 1926 che obbliga Gobetti a sospendere l’attività editoriale e a un forzato esilio a Parigi. Mentre Mussolini ordina al prefetto di Torino di “rendere la vita impossibile a Piero Gobetti, insulso oppositore del governo e del fascismo”, il giovane editore continua ad affiancare la forza dirompente delle parole all’azione politica fino a quella morte prematura che, il 15 febbraio del 1926, mette fine alla sua breve esistenza.

L’eredità gobettiana

Ignoriamo come sarebbe l’editoria italiana oggi se la vita di Piero Gobetti non si fosse interrotta troppo in fretta, però possiamo vedere i frutti che da quella pianta sono nati. Molte esperienze editoriali hanno infatti seguito le orme gobettiane: si pensi, per esempio, a quella di Vanni Scheiwiller. Su tutte, però, la diretta depositaria è di sicuro la casa editrice che Giulio Einaudi fonda nel 1933 sempre a Torino, nella storica sede di via Biancamano.

Giulia Gioia


Note e bibliografia

[1] P. Gobetti, L’editore ideale, Lacaita Editore, Manduria 2006, pp. 63-65.

Front National: da Jean Marie Le Pen a Marine Le Pen

Articolo in Evidenza

Il Front national di Jean Marie Le Pen prima e Marine Le Pen dopo è il primo partito a cui si pensa quando si fa riferimento all’estremismo di destra in terra francese. Il decennio degli anni ’70 rappresenta un punto di svolta fondamentale per questa famiglia politica: oltre alla nascita del Front national (1972), è in questo momento che si collocano la nascita della Nouvelle droite, del G.R.E.C.E. e del Club dell’Horloge: tre realtà che, per quanto differenti tra loro, hanno contribuito a fornire all’estremismo di destra una nuova base dottrinale. Tra i principali teorici si trova Alain De Benoist, molto critico nei confronti di quest’ ala politica, come si può evincere dalle sue parole riportate all’interno del volume di Gervasoni[1]:

“La vecchia destra è morta e se lo è meritato. È morta per aver vissuto di rendita con la sua eredità, i suoi privilegi ed i suoi ricordi. Ed è morta per non aver avuto né volontà né progetto”.

Il tentativo è dunque chiaro, almeno sulla carta: tentare di dare alla destra una progettualità che fino a questo momento è mancata. Tuttavia, la Nouvelle droite, come le altre due realtà sopra citate, non hanno mai trovato un partito che possa essere definito come loro interlocutore privilegiato. Un tentativo fu portato avanti da Bruno Mégret, braccio destro di Jean Marie Le Pen a partire dalla campagna per le presidenziali francesi del 1987. Ben presto però le frizioni con il leader del partito divennero sempre più numerose, fu attorno ad una di queste che si verificò la rottura: Mégret ambiva alla costituzione di un partito in grado di governare a tutti gli effetti, non facendo i conti con la volontà lepenista. Taguieff, un sociologo francese, definì la scelta di Jean Marie Le Pen come “choix du ghetto politique”, sulla stessa linea interpretativa si pose un altro sociologo, Duverger, il quale parlò di “petit parti de minorité permanente”. La diversità tra le due visioni rese inevitabile la scissione: Mégret fondò così il Mouvement national républicain, un’esperienza politica che però non ebbe alcun risultato concreto se non quello di dividere ulteriormente l’elettorato dell’estrema destra.  

L’estrema destra negli anni ’60: Occident e Ordre Nouveau

Storicamente è stato questo uno dei grandi problemi di quest’area politica: l’esistenza di una pluralità di realtà ultraminoritarie e politicamente ininfluenti, prive di un leader carismatico in grado di imporsi nella dinamica politica nazionale e dare forma ad un elettorato molto disperso. Occident e Ordre Nouveau ne sono esempi emblematici, due realtà sorte lungo il decennio degli anni ’60.

Occident nacque nel 1964 e fin da subito si caratterizzò per una base militante proveniente in gran parte dagli ambienti studenteschi (non una novità nel contesto dell’estrema destra francese): le cifre ufficiali riguardanti gli aderenti non vanno oltre le 2000 unità nel periodo di massima espansione. Se politicamente era ininfluente, animò però le pagine di cronaca dei principali quotidiani francesi per le azioni violente messe in atto: fu proprio per una di queste, un attentato ad una libreria maoista, che il movimento venne soppresso.

Ordre Nouveau fu fondato nel 1969, sorto a seguito della crisi attraversata dalla destra francese (moderata ed estrema) in occasione del voto a favore di Pompidou: l’ala più estrema parlò esplicitamente di tradimento e fu così costituito Ordre Nouveau. È un movimento che racchiude militanti di estrema destra di più generazioni con una marcata componente fascista: al suo interno si ritrovano ex collaborazionisti, ex poujadisti e alcuni superstiti dell’attivismo algerino. Tuttavia, anche in questo caso, sono i violenti scontri a causarne lo scioglimento, effettivo dal 1973.

Jean Marie Le Pen: il leader carismatico che si aspettava

Jean Marie Le Pen

Il decennio degli anni ’70 si apre con la fondazione del Front national di Jean Marie Le Pen e fin da subito lo si ritenne il contenitore perfetto per racchiudere le varie correnti dell’estremismo di destra, questa volta però con una marcia in più: un leader carismatico. Tuttavia, il primo test elettorale però si tramutò in una vera e propria batosta: il partito non andò oltre il 2% dei consensi, animando subito le correnti interne. Tra queste, la più influente fu quella condotta dagli ex membri di Ordre Nouveau, che diedero vita alla prima scissione del partito: nel 1974 costituirono il PFN, il Parti des forces Nouvelles, con scarsi successi politici ed elettorali accompagnati da una dispersione dell’elettorato.

Jean Marie Le Pen fu il leader incontrastato del Front national dalla sua fondazione fino all’aprile del 2010, quando annuncia al congresso del partito di non volersi ripresentare per la presidenza e non voler concorrere alle prossime elezioni. I candidati alla successione furono due: Marine Le Pen e Bruno Gollnisch (prima segretario generale del partito e poi sostituto di Mégret alla Delegazione generale). Fu il congresso di Tours, datato gennaio 2011, ad incoronare Marine Le Pen presidente del partito.

Il marinisme: avvio della dédiabolisation

Si inaugura così nuovo corso politico, definito marinisme per differenziarlo da quello perseguito dal padre, detto lepenisme: la dédiabolisation è il concetto attorno al quale si muove programma politico di Marine Le Pen. La traduzione letterale è dediabolizzazione: la linguista Sini[2] ha sottolineato come il partito si auto percepisse diabolisé e stigmatizzato da parte della società civile; l’intento, perciò, è quello di superare questo stigma e rendere il partito presentabile in quanto soggetto politico, sia agli occhi degli elettori che tra i partiti stessi. Il cambio della denominazione del partito, da Front national a Rassemblement national, accompagnato da una rivoluzione a livello dirigenziale, va inteso in questa direzione.

Punto di avvio della dédiabolisation, continua Sini, è un cambiamento a livello comunicativo: ni droite ni gauche, la cui traduzione letterale è né destra né sinistra, è lo slogan con cui Marine Le Pen si presenta al pubblico elettore francese. Tra gli storici che più si sono occupati del tema, è impossibile non citare il politologo italiano Ignazi. In particolar modo, egli sottolinea un aspetto emblematico del partito di Marine Le Pen, vale a dire la capacità di introdurre nel discorso nazionale il tema legato all’immigrazione, un cavallo di battaglia storico del suo partito. È tale tematica ad essere, ad oggi, la più studiata da storici e politologi, soprattutto indagando la correlazione tra immigrazione e voto per l’estrema destra. A tal proposito, Ignazi offre una sua interpretazione, sottolineando come non sia la percentuale di immigrati il dato da tenere in considerazione ma piuttosto la capacità di penetrazione del discorso xenofobo nel dibattito nazionale, capacità egregiamente messa in luce dal Front national.

Ni droite ni gauche, né destra né sinistra, alle presidenziali del 2017

Le presidenziali del 2017 hanno visto l’imposizione di Marine Le Pen ed Emmanuel Macron, con il trionfo di quest’ultimo al secondo turno elettorale. Sono state elezioni spartiacque all’interno della politica francese perché per la prima volta entrambi gli schieramenti si sono fatti portavoce dello stesso slogan: ni droite ni gauche. Se ciò non era una novità per quanto riguarda il discorso marinista, lo era per il neonato partito di Macron, sorto soltanto un anno prima delle presidenziali. L’interrogativo comune riguarda la possibilità (o la sensatezza) o meno di una divisione ancora netta tra destra e sinistra: il sociologo Vincent Tiberji, insegnante presso Sciences Po, ha evidenziato una sempre più marcata tentation de l’obsolescence, riscontrabile sia a livello partitico sia a livello di elettorato. Le recenti elezioni dipartimentali hanno dimostrato però un ritorno ai partiti tradizionali, anche se l’astensionismo ha raggiunto numeri importanti. Il vero banco di prova saranno le elezioni presidenziali del 2022, che si preannunciano come un nuovo testa a testa tra i due candidati del 2017.

Sara Ghisoni


Note e bibliografia

[1] M. Gervasoni, La Francia in nero. Storia dell’estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen, Marsilio Nodi, Venezia, 2017.

[2] L. Sini, Il Front national di Marine Le Pen. Analisi del discorso frontista, Edizioni ETS, Pisa, 2017.

Togliatti: intervista al professor Fiocco

In questa intervista ho intervistato il professor Gianluca Fiocco che insegna Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata autore del libro Togliatti e il realismo della politica (Carocci,2018).

Il Psi inizialmente aderì alla Terza internazionale, quali furono le principali motivazioni? Quali idee avevano il gruppo dell’Ordine Nuovo e Togliatti in questa prima fase?

Il Psi non aveva aderito all’Unione Sacra del 1914, contrariamente ad altri partiti socialisti, e a guerra in corso aveva sostenuto iniziative per rilanciare un progetto internazionalista dopo il fallimento della Seconda Internazionale. I sommovimenti russi del 1917 erano stati salutati dai socialisti italiani come un grande evento liberatorio, pur con differenze tra la componente riformista e quella massimalista. Il netto prevalere di quest’ultima al congresso di Bologna (ottobre 1919) coincide con la adesione alla neocostituita Terza Internazionale. Ma il Psi del biennio rosso, come è noto, non sceglie coerentemente né una linea rivoluzionaria né una linea riformatrice. Di rivoluzione si parla molto, prospettando una ondata sovvertitrice in tutta Europa, ma non vi è alcuna attività di preparazione in tal senso.

A Torino, punta avanzata della classe operaia italiana, i giovani dirigenti dell’Ordine Nuovo danno vita all’esperienza originale dei Consigli di fabbrica, scorgendo in essi il corrispettivo italiano dei Soviet. Gli ordinovisti, tra i cui dirigenti fondatori vi è Togliatti, lavorano attivamente per la rivoluzione, ritenendo che nel paese esistano le condizioni per una presa del potere. Si arriva così alla prova di forza dell’occupazione delle fabbriche, nel settembre 1920. A Torino si nutre la speranza di poter dare una spallata risolutiva al padronato, ma in realtà la controffensiva di classe è alle porte. Togliatti, inviato a Milano per sollecitare una estensione in senso rivoluzionario della lotta in corso, si scontra con le idee ben diverse dei vertici del Psi e della Cgl. Con amaro sarcasmo, lo stesso Togliatti avrebbe ricordato nelle note biografiche raccolte da Marcella e Maurizio Ferrara le obiezioni bizantine che gli vennero mosse al Consiglio nazionale socialista: «Chi aveva autorizzato la Sezione socialista di Torino, organo politico, a scatenare un movimento di natura sindacale? E quali erano le rivendicazioni? Erano esse state presentate tempestivamente ai superiori organi di direzione? E perché si sarebbe dovuto estendere il movimento? Questi Consigli di fabbrica, per cui si faceva sciopero, erano poi qualcosa di ortodosso, che ci fosse negli Statuti, o non erano una invenzione di intellettuali?». A Togliatti non restò che tornarsene mesto sotto la Mole, dove partecipò alle trattative in prefettura per stabilire forme e tempi della ripresa del lavoro.

In che modo il gruppo di Ordine Nuovo e Togliatti  contribuirono alla nascita del Pcd’I? Quali erano le differenze rispetto alle idee di Bordiga?

Nell’autunno del 1920 sia gli ordinovisti che i bordighiani erano ormai determinati a rompere con i riformisti, considerati traditori e nemici dei reali interessi del proletariato. Ma anche con i massimalisti la convivenza si era fatta difficilissima, in quanto non intendevano staccarsi dai riformisti. Questa separazione era stata chiesta da Lenin al II Congresso dell’Internazionale (luglio 1920), ma il leader massimalista Giacinto Menotti Serrati non aveva accolto la sollecitazione, compresa nelle cosiddette “ventuno condizioni” dettate per l’appartenenza all’Internazionale. Tra di esse vi era il cambiamento di denominazione da partito socialista a partito comunista. Era proprio dal centro del nascente movimento comunista che veniva l’ordine di assumere una posizione inequivocabilmente rivoluzionaria. La nascita del Pcd’I avvenne dalla convergenza del gruppo di Bordiga e di quello torinese, con il primo in una posizione predominante, anche perché possedeva una maggiore ramificazione nazionale. Tra i due gruppi non mancavano differenze, anche rilevanti: gli ordinovisti erano caratterizzati da un costume di sintesi politico-culturale del tutto peculiare, e pure la loro concezione del rapporto fra partito e classe operaia era distante da quella di Bordiga. Ma in questa fase prevalse la comune idea della necessità di costituire un partito nuovo, che doveva essere disciplinato e impermeabile a qualsiasi influenza del riformismo e del pacifismo borghese. Questo fece accantonare tutte le potenziali divergenze, che sarebbero poi riemerse più avanti.

Quali posizioni espresse Togliatti nel congresso di Livorno?

Togliatti seguì gli sviluppi congressuali da Torino e condivise pienamente la decisione di separarsi dal Psi e fondare il nuovo partito comunista. Fu certamente tra coloro che non intrapresero questo passo con facile ottimismo. Nei suoi scritti di quei giorni emerge la coscienza che si sta iniziando un cammino necessario ma anche segnato da grandi problemi e incognite. La prospettiva rivoluzionaria, che al giovane dirigente era parsa concreta durante l’occupazione delle fabbriche, appare adesso da costruire con un lavoro difficile e paziente. Le sconfitte hanno ammaestrato tutto il gruppo torinese, che ha avviato una riflessione sulle differenze tra le diverse zone del paese, tra operai e contadini, tra Nord e Sud. Sono iniziate le spedizioni punitive dello squadrismo fascista. Proprio al loro studio Togliatti comincerà a dedicare grande attenzione, mentre i bordighiani negheranno la specificità del fascismo.

In che modo l’esilio in Unione Sovietica influenzò Togliatti nel secondo dopoguerra?

Togliatti ha vissuto tutte le durezze e i drammi della “guerra civile europea”. Dopo il suo ritorno in Italia, è probabilmente il dirigente del comunismo occidentale che più si adopera e scommette sulla possibilità di lasciarsi questa fase terribile alle spalle e iniziare un nuovo cammino nella costruzione del socialismo. Un cammino che non passi attraverso nuove catastrofi belliche. Certamente, la sua è la generazione comunista che con l’Urss stabilisce un “legame di ferro” – la definizione, come è noto, appartiene allo stesso Togliatti –, cementato dalle persecuzioni, dallo sforzo di modernizzazione intrapreso dal colosso sovietico, dalla diffusione dei fascismi in Europa fino alla aggressione nazista del 1941. Togliatti aderisce a tratti fondamentali dello stalinismo: l’Urss è il baluardo del socialismo e la sua difesa è il compito primo di ogni comunista. Al tempo stesso, negli anni dell’esilio Togliatti a più riprese si pone il problema della nazionalizzazione dei partiti comunisti, della importanza di un loro radicamento e dello studio di programmi e forme di lotta calibrati sui contesti specifici in cui i comunisti si trovano ad agire. Si tratta di una esperienza che determina in Togliatti una attenzione sistematica al nesso nazionale-internazionale: i partiti comunisti devono agire sempre come parte di un movimento globale, ma nessuna strategia globale può essere calata astrattamente sui singoli partiti, senza tenere conto delle tradizioni locali e del contesto in cui operano.

Quali idee di Togliatti del primo dopoguerra sull’idea di partito ritroviamo nel secondo dopoguerra con il “partito nuovo”?

Quella del secondo dopoguerra è una pagina nuova. Il Pcd’I era nato e si era sviluppato come piccola formazione di militanti temprati e disciplinati, in lotta contro violenze e persecuzioni. La rifondazione della metà degli anni Venti con Gramsci segretario aveva cambiato programmi, metodi e prospettive, ma il partito era rimasto di “rivoluzionari di professione”, tra esilio e cospirazione interna. Costumi e meccanismi severissimi di adesione al partito vengono sconvolti da Togliatti quando arriva a Napoli nel 1944. Varie testimonianze dell’epoca ci restituiscono lo sconcerto dei dirigenti dinanzi al modello del partito di massa che viene adottato. Togliatti ha riflettuto sui caratteri innovativi introdotti dal partito fascista, sui caratteri di massa che la politica dovrà necessariamente mantenere e rafforzare, in un contesto ora pluralista. Parte una sfida con i cattolici per conquistare adesioni nella società. Una sezione del Pci per ogni campanile: è questo il traguardo indicato da Togliatti. Certo, all’interno del partito di massa si conserva e opera un nucleo “leninista” selezionato dall’esilio e dalla Resistenza. A questo nucleo più duro spetta il compito di serrare i ranghi del partito durante l’inverno della guerra fredda.

Il partito nuovo dunque come fondamentale discontinuità, resa possibile dalla Storia e dalle sue svolte. Possiamo però osservare che c’è una lezione del primo dopoguerra che resta in Togliatti: il fatto che i movimenti, per quanto avanzati (pensiamo ai consigli di fabbrica), hanno bisogno di un partito che organizzi la lotta politica e culturale, facendo da tramite con la società. Questa visione si rafforza ulteriormente dal 1944, quando i comunisti accettano l’orizzonte della democrazia. «I partiti – osserva Togliatti alla Costituente nel luglio del 1946 – sono la democrazia che si organizza. I grandi partiti di massa sono la democrazia che si afferma, che conquista posizioni decisive, le quali non saranno perdute mai più».

Che ruolo ebbe Togliatti nella fase costituente e come cambiò dopo il 1947?

Accanto all’edificazione del partito nuovo, gli sforzi principali di Togliatti furono rivolti alla conquista della Repubblica e alla sua caratterizzazione nel senso più progressivo possibile. Tra i principali leader politici, fu quello che partecipò maggiormente ai lavori della Costituente, dove operò attivamente nella Commissione dei 75 e poi nel Comitato dei 18, incaricato di comporre in un testo unico gli articoli formulati dalle diverse sottocommissioni. Alla prima riunione dei deputati comunisti disse che ogni concezione agitatoria e tribunizia del parlamentarismo doveva essere messa alle spalle: quella era l’Assemblea conquistata dal popolo, che doveva tracciare la via per un inserimento sempre più pieno delle masse popolari nella vita del paese e nei suoi centri di direzione.

Togliatti considerò il cantiere della Costituente come un incontro fra culture diverse, chiamate a ricercare elementi originali di convergenza, senza erigere muri o cadere in dispute ideologiche. Solo attraverso un rigoroso impegno in tal senso si sarebbe approdati a una Costituzione duratura, in grado di accompagnare il popolo italiano in un cammino di pace e progresso. La Costituzione non doveva limitarsi a registrare le condizioni del tempo presente: rappresentava anche un programma per il futuro. Questa impostazione togliattiana venne ben colta all’epoca da Piero Calamandrei.

Possiamo dire che in Togliatti, come in altri padri della Repubblica, operò in quel periodo uno spirito risorgimentale. Allo Stato unitario sorto nel 1861 si doveva conferire nuova linfa riorganizzandolo e aprendolo definitivamente in senso democratico. Questo era il ruolo storico che ricadeva in primo luogo sui partiti di massa. Togliatti attribuì particolare importanza al dialogo con la Dc, da lui considerata come il perno del sistema politico. Con i “professorini” democristiani della prima Sottocommissione vi fu uno scambio molto intenso, in cui le comuni speranze consentivano di volgere in positivo le differenze.

Il gelo della guerra fredda calato nel corso del 1947 non fece indietreggiare Togliatti dai suoi propositi. Lo spirito costituente venne preservato – anche dopo la cacciata delle sinistre dal governo – e sulla Costituzione appose la sua firma Umberto Terracini, presidente comunista dell’Assemblea per la cui nomina Togliatti si era battuto dopo le dimissioni di Saragat. Fu un esito destinato a rivelarsi importante per la tenuta del sistema repubblicano, ben diverso da quanto accaduto in Francia, dove il Pcf decise di non approvare la carta costituzionale, pur avendo contribuito fortemente alla sua redazione.

Il 1948 fu un anno ancora più duro – con lo “scontro di civiltà” del 18 aprile e i giorni drammatici dell’attentato di Pallante – ma la soglia che poteva condurre a un bagno di sangue non venne superata. A questo esito contribuirono la moderazione e il realismo di Togliatti, ma anche la sua fedeltà alla scommessa democratica che era stata fatta. Certo, alle aspettative della democrazia progressiva subentrò lo scenario di una guerra di posizione di durata probabilmente lunga e dalle mille incertezze, su cui aleggiava il pericolo di una messa fuori legge del Pci.

Quali furono le critiche di Togliatti verso il centrismo e verso il centro-sinistra? Quali critiche pose al Psi durante il centro-sinistra?

Per Togliatti il centrismo aveva una duplice e gravissima colpa: in politica estera legava l’Italia a doppio filo al blocco occidentale e alla battaglia contro il comunismo; in politica interna negava le istanze progressive del 1944-47 e consentiva invece la “restaurazione capitalista”, nel senso della riproposizione di quel modello di bassi salari e bassi consumi che aveva sempre tenuto le masse ai margini. Togliatti matura un fortissimo risentimento verso De Gasperi, si sente tradito dalle sue scelte. Al tempo stesso, cerca sempre di cogliere l’occasione di uscire dalla trincea della guerra fredda, di dimostrare che i comunisti possono offrire un contributo alla evoluzione democratica del paese. Pur giudicando limitate e insufficienti le riforme del centrismo, rivendica il ruolo del Pci nel favorirne l’adozione. In altre parole, per lui il centrismo ha rallentato e deviato il cammino prefigurato alla Costituente, ma non ha chiuso tutte le porte. Nella Dc permangono forze progressiste e sensibili alle istanze popolari, su cui si deve far leva. Anche da qui nasce il noto appello del 1954 «per un accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana».

Riguardo all’atteggiamento verso il centro-sinistra, distinguiamo in Togliatti diverse fasi, legate alla evoluzione del quadro politico. Dopo la sconfitta della “legge truffa”, si batte affinché si concretizzi la “apertura a sinistra”, che consenta di superare le barriere del centrismo. Per il Pci c’è il pericolo che questa apertura si risolva in un allentamento dei legami col Psi, ma a un certo punto Togliatti accetta che i socialisti acquistino una maggiore libertà di movimento (dopo gli sconquassi del 1956 la cosa diventa inevitabile). Quello che per Togliatti non è accettabile è che un accordo di governo tra Dc e Psi si risolva in una operazione trasformista che perpetui il sistema di potere democristiano. Su questo si accende periodicamente lo scontro con Nenni.

Per Togliatti il Pci deve cogliere ogni spiraglio per spostare in avanti, in senso progressivo la dialettica del confronto politico. Nel 1962 annuncia una opposizione costruttiva al centro-sinistra “programmatico” e appoggia le sue riforme, pur ravvisandone una serie di limiti. Togliatti riconosce le trasformazioni sociali ed economiche in corso – sono gli anni del “miracolo” – e apre alla possibilità che si stiano creando in Italia le condizioni per una politica riformatrice in linea con quella dei paesi europei più avanzati: dinanzi a questa eventualità il Pci dovrà fare la sua parte nel dibattito delle idee, in Parlamento, nel corpo della società. Ma poi, dopo le elezioni del 1963, quando il centro-sinistra arretra ed emergono fortissime le resistenze tradizionali al cambiamento, Togliatti diventa assai più pessimista. Ai suoi occhi, la borghesia italiana torna a mostrare il suo volto reazionario e la Dc continua a farle da garante. Nel suo ultimo editoriale su “Rinascita” prima della morte si chiederà angosciato: «in quale misura i gruppi dirigenti della grande borghesia italiana, industriale e agraria, sono disposti ad accogliere anche solo un complesso di modeste misure di riformismo borghese? In quale misura, cioè, è possibile, in Italia, un riformismo borghese?». Dietro questi interrogativi si ripropone il compito storico del proletariato italiano di sopperire ai limiti della borghesia nazionale. Questi interrogativi ci fanno anche comprendere la massima togliattiana che in Italia, per fare le riforme, bisogna essere rivoluzionari.

Quali sono alcuni aspetti che secondo lei andrebbero approfonditi in occasione di questo centenario sul Pci?

Credo che il compito principale per la ricerca storica sia oggi quello di approfondire il modo in cui finì il Pci, anche perché sarebbe un contributo fondamentale per ricostruire la fine della prima fase della Repubblica. Si tratta di una vicenda in cui i fattori internazionali sono fondamentali. Con la grande trasformazione degli anni Settanta si produce la crisi fatale dei sistemi comunisti e il Pci, che ha scommesso sulla possibilità di riformare questi sistemi, subisce un colpo terribile. Inizia per Botteghe Oscure una navigazione solitaria: non più inserito nel movimento comunista come un tempo, il Pci rimane al tempo stesso esterno al mondo della socialdemocrazia. Con la fine della guerra fredda e l’avvento della globalizzazione, entrambe le famiglie storiche del movimento operaio europeo rimangono sotto le macerie del muro di Berlino. Da questo punto di vista, possiamo inserire la fine del Pci nel tramonto generale della sinistra novecentesca. Ma ci sono poi delle specificità italiane su cui si dovrà continuare a indagare e a riflettere. È una riflessione necessaria: sono passati trent’anni ma il sistema politico italiano non è riuscito a dotarsi di strumenti neanche lontanamente paragonabili al ruolo di collante che svolgevano i tanto vituperati partiti della “prima Repubblica”. Tornare sul perché a un certo punto non sono stati più in grado di svolgerlo può essere utile rispetto alle sfide del tempo presente.

Vorrei chiudere con due osservazioni. La prima (negativa) è che la inevitabile trasformazione del Pci avrebbe potuto e dovuto essere gestita in modo più assennato, realistico e rispettoso della sua tradizione politica e culturale. Perché ciò non è avvenuto? Ecco la domanda cruciale e rivelatrice di più generali problemi della storia del nostro paese. La seconda (positiva) è che la battaglia del Pci per trasformare i sudditi in cittadini, emancipare le masse e inserirle nella vita pubblica, è stata una componente fondamentale dello sforzo, coronato da successo, compiuto dal popolo italiano per lasciarsi alle spalle le rovine della dittatura e della guerra, e intraprendere un nuovo cammino di progresso. Finché il Pci ha adempiuto a questi compiti, necessari per lo sviluppo della nazione, è stato un partito vitale, che traeva linfa dagli stessi effetti della sua azione. A un certo punto, però, quando si è trattato di ripensare questo ruolo alla luce delle trasformazioni dell’Italia e del mondo, non si è stati in grado di farlo adeguatamente. Riflettere sul declino e sulla fine del Pci rappresenta dunque una chiave importante per ragionare su quelle trasformazioni che hanno prodotto il mondo in cui viviamo oggi.

Nettuno, 7 febbraio 2021

Giornata del Ricordo: Intervista al professor Raoul Pupo

In occasione della giornata del Ricordo pubblico nuovamente l’intervista del 2021 al professor Raoul Pupo.

Quali sono secondo Lei le principali motivazioni per cui il giorno del Ricordo è ancora così divisivo?

Una sola: la politicizzazione. La legge istitutiva è stata a suo tempo approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento con un gesto denso di significato, perché ha voluto dire che le vittime delle tragedie del confine orientale non erano i caduti di una parte della nazione (fascisti, nazionalisti) ma di tutta la nazione. Poi, nel corso del tempo, ci sono stati vari tentativi di forzare questa grande e fondamentale acquisizione: abbiamo assistito e stiamo tuttora assistendo a vere e proprie campagne di “colonizzazione” del giorno del Ricordo da parte della destra italiana ed in particolare di alcune forze politiche, anche attraverso la diffusione di interpretazioni, dati e formule proprie della cultura nazionalista e che mai hanno avuto cittadinanza nella comunità degli storici. Contemporaneamente, alcuni nuclei di irriducibili zelatori della repubblica federativa jugoslava hanno continuato a riproporre invece quelle che erano state le tesi prima delle propaganda e poi della storiografia di regime della Jugoslavia comunista: le stragi delle foibe sono solo un’invenzione della propaganda fascista; c’è stata solo la giusta punizione di qualche criminale; tutti quelli che sono stati colpiti nel 1943 e nel 1945 dovevano essere colpevoli, altrimenti non li avrebbero presi; l’esodo è stata un’emigrazione verso il benessere capitalista oppure il frutto di un inganno del governo italiano, e così via. Beninteso, si tratta di frange assai circoscritte, collocate all’estrema sinistra, ma molto attive sul web.

Vero è, che talvolta i loro giudizi vengono espressi in modi anche assai irriguardosi per le memorie dolorose e questo ha suscitato comprensibile, grave disappunto fra parenti ed eredi delle vittime. Da qualche anno a questa parte però, ciò ha innescato una campagna allarmista da parte di alcune associazioni di profughi e delle forze politiche di destra, che ha finito per ingigantire un fenomeno in realtà marginale. Ma non basta. Sempre dalla medesima parte, si è diffusa nell’uso pubblico l’abitudine di tacciare di “negazionismo”, o almeno del suo cugino “riduzionismo”, qualsiasi intervento che metta in discussione la rispolverata vulgata nazionalista.

Rispunta dunque la logica maledetta dell’intolleranza, che tanto sembra piacere di questi tempi, specie a chi privilegia le logiche della pancia rispetto a quelle del cervello. Fortunatamente, tale deriva è stata contrastata da molte altre iniziative ben più attente al rigore storico ed interessate invece a costruire percorsi di pacificazione. È questo il caso, ad esempio, delle attività promosse dalla rete degli Istituti per la storia della resistenza, che ben prima dell’istituzione della giornata memoriale avevano mostrato grande sensibilità per la storia del confine orientale. Ma ciò che più conta, vi sono stati alcuni interventi riequilibratori dei vertici istituzionali, cioè dei presidenti della Repubblica, che si sono spesi oltre ogni speranza in una logica di riconciliazione fra i popoli e le loro memorie. Speriamo che vengano ascoltati.

In Italia si parla spesso di infoibati italiani trascurando il fatto che il fenomeno ha coinvolto anche sloveni e croati. Quali sono le motivazioni che portano a trascurare questi aspetti?

Principalmente la poca conoscenza, spesso alimentata anche dai media, che preferiscono le semplificazioni rispetto alla delineazione di un quadro più articolato: questo accade frequentemente, ma è più grave quando si parla di una regione di frontiera, dove si sovrappongono lingue, culture politiche, aspirazioni contrastanti, memorie divise, ma anche logiche diverse che governano gli accadimenti rispetto a quel che è avvenuto in Italia. Un esempio da manuale è quello delle stragi del 1945 – cioè le foibe – che rappresentano la coda più occidentale di un’enorme ondata di violenza politica che ha riguardato tutti i territori liberati dai tedeschi nel medesimo periodo da parte delle truppe jugoslave, e che ha condotto all’eliminazione fisica di tutti coloro che si erano compromessi con il potere tedesco (e prima italiano) o che comunque erano considerati pericolosamente ostili all’instaurazione del nuovo regime comunista. Stiamo parlando di molte decine di migliaia di persone, in un gigantesco bagno di sangue. Ovviamente, nei territori popolati da italiani le vittime furono quasi solo italiane, perché erano gli italiani ad essere legati al potere che si voleva distruggere ed anche perché fra loro – antifascisti non comunisti compresi – era diffusa la contrarietà all’annessione alla Jugoslavia di Tito.

Guardando quindi il fenomeno “dalla parte giusta”, da est verso ovest, in una prospettiva jugoslava piuttosto che italiana, questo diventa molto più comprensibile, il che non vuol dire affatto giustificabile, perché rientra sempre fra i casi di criminalità politica di massa.

Quali sono le caratteristiche che rendono particolare la foiba di Basovizza?

In primo luogo, non è una foiba, cioè un abisso naturale, ma un pozzo minerario; però questo è largamente irrilevante. In secondo luogo, si tratta della cavità in cui è stato probabilmente occultato il maggior numero di salme di italiani uccisi in entrambe le stagioni della violenza di massa, quella dell’autunno 1943 e quella della primavera 1945: l’ordine di grandezza dovrebbe essere di alcune centinaia di vittime. Peraltro – altro connotato essenziale – mentre le testimonianze sono cospicue, manca il corpo del delitto, perché i recuperi non sono mai stati possibili per ragioni tecniche. Comprensibilmente, ciò ha innescato per decenni polemiche a non finire, ancora non del tutto sopite.

A suscitarle ha poderosamente contribuito la geniale trovata comunicativa di un giornalista dell’epoca che, non sapendo che cosa scrivere, ipotizzò che nella cubatura di detriti che ingombra il pozzo potessero esser stati ammucchiati fino a 1.500 cadaveri. Rapidamente, nell’uso pubblico e politico, tale ipotesi si è trasformata nei 1.500 italiani infoibati a Basovizza, in alcuni casi poi lievitati per virtù propria fino a 2.000 0 2.500. È facile capire come tale disinvoltura abbia prestato il fianco a critiche feroci, che in molti casi si sono spinte oltre, cioè fino al punto di negare che qualcuno nella foiba sia stato effettivamente gettato.

Il cortocircuito fra storia e mito è stato poi alimentato dal fatto che, comunque siano andate le cose, il sito è divenuto il simbolo di tutte le violenze subite dagli italiani fra guerra e dopoguerra ed il luogo privilegiato delle cerimonie commemorative. A questo punto, il nodo è diventato gordiano, fino a che i presidenti delle repubbliche di Italia e Slovenia, nel luglio 2020, hanno deciso di tagliarlo con un gesto di pietà condivisa, che va oltre le memorie ed i giudizi storici.

Nel corso degli anni c’è stata molta confusione sul numero degli infoibati, secondo gli studi più recenti qual è il numero delle vittime?

Con certezza non si sa, perché lo stato delle fonti non lo consente. È possibile tuttavia farsi un’idea di quale sia l’ordine di grandezza complessivo delle vittime delle due ondate di violenza del 1943 e 1945, subito precisando che il termine “infoibati” rischia di depistare il lettore, perché molti degli uccisi trovarono la morte in altra maniera ed i loro corpi sono finiti chissà dove. Meglio quindi è parlare complessivamente degli “scomparsi”.

Per il 1943 tale ordine di grandezza è abbastanza facile da stabilire ed è di 500 vittime, concentrate nella provincia di Pola. Per il 1945 invece i calcoli sono complicatissimi. Ci aiuta una ricerca compiuta dall’Istat alla fine degli anni ’50, secondo la quale il numero delle vittime civili nelle sole province di Udine, Gorizia e Trieste ammonterebbe a 2.627. Ovviamente, le cifre finali possono ballare un po’ com’è inevitabile in questi casi, però è un buon inizio. A tale risultato – magari depurato da errori e doppioni – vanno sommati gli uccisi nelle province di Pola, Fiume e Zara. Per Fiume abbiamo una stima molto buona, frutto di un esemplare lavoro di collaborazione fra la Società di studi fiumani ed alcuni ricercatori croati, che fissa il totale dei caduti a circa 600. Nulla del genere, purtroppo, è stato fatto per l’Istria, ma per Pola e la parte meridionale della penisola una buona stima è di circa 800 persone, cui bisogna aggiungere gli scomparsi dal resto della provincia, comprese le zone interne a popolamento croato, dove pure vi furono delle vittime. Quanto a Zara, le violenze riguardarono solo l’aliquota residuale di popolazione rimasta in città dopo che la maggioranza era già sfollata in Italia a seguito dei bombardamenti aerei del 1943-44, che distrussero praticamente tutto il centro urbano. Le stime correnti parlano di più di 100 vittime.

Siamo arrivati dunque ad almeno 4.000 unità, alle quali vanno aggiunte le vittime militari. Qui però la situazione delle fonti è ancora peggiore, perché che la documentazione di cui disponiamo non distingue tra i vari flussi di prigionieri che si sono accavallati nel corso del tempo in mani jugoslave: quelli appunto fatti prigionieri nella Venezia Giulia a fine guerra; quelli – molto più numerosi – catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e successivamente divenuti prigionieri dell’armata popolare; ed infine quelli internati in Germania dopo l’armistizio, liberatisi nella primavera del 1945 e che hanno avuto la pessima idea di attraversare la Jugoslavia per cercare di tornare in Italia, con l’unico risultato di venir nuovamente arrestati e costretti a “collaborare” con il loro lavoro alla ricostruzione di quello Stato che avevano precedentemente distrutto. Ipotizzare, sulla base delle denunce di scomparsa – peraltro probabilmente parziali e non sempre attendibili – che fra le migliaia di catturati nella primavera del 1945 parecchie centinaia non siano tornati sembra ragionevole, ma oltre è davvero difficile andare.

Complessivamente quindi a che fare con un ordine di grandezza di alcune migliaia di vittime, sembrerebbe fra le quattro e le cinque. Di più, è francamente improbabile, a meno di non conteggiare – come fa disinvoltamente qualche elenco – anche i caduti in combattimento italiani contro i partigiani, magari anche nella Dalmazia annessa dopo il 1941, ovvero di dar per certi tutti i presunti il che, fortunatamente per loro, non è vero. Di meno, è possibile, come esito di un’accurata ripulitura degli elenchi da errori e doppioni, ma probabilmente non di molto.

Molto spesso c’è lo stereotipo diffuso di definire gli esuli come fascisti, da dove nasce questo stereotipo?

In primo luogo, naturalmente, dal fascismo stesso, che durante in Ventennio ha fatto tutto quel che poteva per convincere i cittadini della Venezia Giulia che Italia e fascismo erano la stessa cosa. Purtroppo ci è riuscito piuttosto bene, nel senso che per i partigiani sloveni e croati dire italiani o dire fascisti era equivalente. La situazione non cambiò molto nel dopoguerra nei territori sotto controllo jugoslavo. Qui i vertici del partito comunista usavano il termine “fascista” con un significato assai largo, ad esempio come sinonimo di “legato al potere italiano”, oppure di “ostile al movimento di liberazione”, ovvero anche di “contrario all’annessione alla Jugoslavia” e “avverso alla costruzione del socialismo”. Ricadere in tale categoria per gli italiani era quindi piuttosto facile: è vero che ai livelli decisionali superiore si faceva distinzione fra gli “italiani onesti e buoni” e i ”residui del fascismo”, ma i quadri locali, di estrazione partigiana, tendevano in genere a semplificare.

Ora, ufficialmente la politica del governo jugoslavo, concordata con il partito comunista italiano, era quella della “fratellanza italo-slava”, che prevedeva il mantenimento in Istria ed a Fiume di una minoranza italiana, tutelata per legge, anche se drasticamente ridimensionate rispetto all’anteguerra. In concreto, la “fratellanza” non funzionò, per i suoi stessi limiti (si trattava di una politica di integrazione selettiva a condizioni particolarmente pesanti), per le sue difficoltà di applicazione da parte dei dirigenti locali che non ci credevano e, da ultimo, perché la crisi del Cominform spiazzò completamente i comunisti italiani, gli unici ad aver cercato di integrarsi nel sistema jugoslavo.

Ma nel 1946 e 1947, quando in Italia cominciarono ad arrivare le prime ondate di profughi, fra Tito e Stalin non era ancora scoppiato il gelo e dunque, per il PCI, chi fuggiva dalla Jugoslavia socialista non poteva che essere un anticomunista, cioè un fascista. Da ciò episodi anche clamorosi di ostilità nei confronti dei profughi e la diffusione dello stereotipo, duro a morire, negli ambienti della sinistra.

Come è cambiata la memoria delle foibe dopo l’istituzione della giornata del Ricordo? C’è stata una maggiore attenzione anche degli storici?

Le memorie di frontiera naturalmente sono sempre le medesime, soggettive, divise e certo non interscambiabili, ma fortunatamente si parla sempre meno della necessità di una “memoria condivisa”, che è una contraddizione in termini rispetto alla soggettività dei ricordi, e sempre più di riconoscimento delle varie memorie e di reciproco rispetto. Fra le diverse memorie, quella che sino agli anni ’90 del ‘900 era più a rischio, era quella dell’esodo e, più in generale, della stessa esistenza storica delle comunità italiane in Istria e a Fiume. Oggi invece questa memoria è stata salvata, ha suscitato l’attenzione di studiosi e media ed in alcuni casi è stata anche monumentalizzata.

Se invece parliamo della conoscenza storica diffusa nel Paese, allora questa è certo aumentata, vuoi per le celebrazioni ufficiali, vuoi e soprattutto per l’intensissima attività didattica sviluppata da numerosi soggetti, istituzionali e privati. È tuttora molto polarizzata sulle foibe – dramma dal grande impatto emotivo e facilmente comunicabile – meno sull’esodo, che pur rappresenta un fenomeno di gran lunga più significativo e, addirittura, periodizzante. Ancora una volta, si tratta di uno squilibrio legato all’uso politico ed alla funzione selettiva ed amplificatrice dei mezzi di comunicazione.

La “riscoperta” della storia del confine orientale ha riguardato anche la storiografia, dapprima semplicemente con una maggior attenzione ai prodotti di chi già si occupava, prevalentemente in sede locale, di quelle vicende, poi anche con nuove ricerche. Avviene qui il rovescio di quanto accade nell’uso pubblico: in quello prevale l’attenzione per le foibe, sul piano degli studi invece per l’esodo. È logico che sia così. Le stragi del 1943 e del 1945 sono state un’esperienza drammatica e traumatica, ma circoscritta e spiegabile con una certa facilità: le fonti decisive sono note da un trentennio e per le indagini si tratta di una pista ormai fredda. L’esodo invece è stato un fenomeno assai più ampio ed articolato, snodatosi per più di un decennio e che ha coinvolto un’intera società locale ben articolata. Si tratta quindi di un campo di ricerca assai vasto non solo per la storia politica, ma anche per quella sociale e per l’antropologia, sia che si studi la fase distruttiva, cioè lo scompaginamento e sradicamento delle comunità italiane dalle loro sedi storiche d’insediamento, sia che si affrontino invece i temi della profuganza, dell’accoglienza e della ricostruzione delle esistenze individuali e comunitarie nella diaspora.

Fra le novità infine dell’ultimo ventennio, va segnalata la funzione importante di alcuni storici di frontiera di nuova generazione, talvolta residenti in Croazia, talaltra in Italia, ma portatori di doppia cittadinanza, di competenze linguistiche e di conoscenze storiografiche che consentono loro di muoversi agevolmente nei diversi contesti. È a loro, ad esempio, che dobbiamo gli studi più innovativi sulla realtà istriana del secondo dopoguerra, condotti sulle fonti ex jugoslave, che siamo ora finalmente in grado di incrociare con quelle italiane, in modo da consentire una visione a tutto tondo di vicende obiettivamente assai complesse.

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