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Giornata del Ricordo: Intervista al professor Raoul Pupo

In occasione della giornata del Ricordo pubblico nuovamente l’intervista del 2021 al professor Raoul Pupo.

Quali sono secondo Lei le principali motivazioni per cui il giorno del Ricordo è ancora così divisivo?

Una sola: la politicizzazione. La legge istitutiva è stata a suo tempo approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento con un gesto denso di significato, perché ha voluto dire che le vittime delle tragedie del confine orientale non erano i caduti di una parte della nazione (fascisti, nazionalisti) ma di tutta la nazione. Poi, nel corso del tempo, ci sono stati vari tentativi di forzare questa grande e fondamentale acquisizione: abbiamo assistito e stiamo tuttora assistendo a vere e proprie campagne di “colonizzazione” del giorno del Ricordo da parte della destra italiana ed in particolare di alcune forze politiche, anche attraverso la diffusione di interpretazioni, dati e formule proprie della cultura nazionalista e che mai hanno avuto cittadinanza nella comunità degli storici. Contemporaneamente, alcuni nuclei di irriducibili zelatori della repubblica federativa jugoslava hanno continuato a riproporre invece quelle che erano state le tesi prima delle propaganda e poi della storiografia di regime della Jugoslavia comunista: le stragi delle foibe sono solo un’invenzione della propaganda fascista; c’è stata solo la giusta punizione di qualche criminale; tutti quelli che sono stati colpiti nel 1943 e nel 1945 dovevano essere colpevoli, altrimenti non li avrebbero presi; l’esodo è stata un’emigrazione verso il benessere capitalista oppure il frutto di un inganno del governo italiano, e così via. Beninteso, si tratta di frange assai circoscritte, collocate all’estrema sinistra, ma molto attive sul web.

Vero è, che talvolta i loro giudizi vengono espressi in modi anche assai irriguardosi per le memorie dolorose e questo ha suscitato comprensibile, grave disappunto fra parenti ed eredi delle vittime. Da qualche anno a questa parte però, ciò ha innescato una campagna allarmista da parte di alcune associazioni di profughi e delle forze politiche di destra, che ha finito per ingigantire un fenomeno in realtà marginale. Ma non basta. Sempre dalla medesima parte, si è diffusa nell’uso pubblico l’abitudine di tacciare di “negazionismo”, o almeno del suo cugino “riduzionismo”, qualsiasi intervento che metta in discussione la rispolverata vulgata nazionalista.

Rispunta dunque la logica maledetta dell’intolleranza, che tanto sembra piacere di questi tempi, specie a chi privilegia le logiche della pancia rispetto a quelle del cervello. Fortunatamente, tale deriva è stata contrastata da molte altre iniziative ben più attente al rigore storico ed interessate invece a costruire percorsi di pacificazione. È questo il caso, ad esempio, delle attività promosse dalla rete degli Istituti per la storia della resistenza, che ben prima dell’istituzione della giornata memoriale avevano mostrato grande sensibilità per la storia del confine orientale. Ma ciò che più conta, vi sono stati alcuni interventi riequilibratori dei vertici istituzionali, cioè dei presidenti della Repubblica, che si sono spesi oltre ogni speranza in una logica di riconciliazione fra i popoli e le loro memorie. Speriamo che vengano ascoltati.

In Italia si parla spesso di infoibati italiani trascurando il fatto che il fenomeno ha coinvolto anche sloveni e croati. Quali sono le motivazioni che portano a trascurare questi aspetti?

Principalmente la poca conoscenza, spesso alimentata anche dai media, che preferiscono le semplificazioni rispetto alla delineazione di un quadro più articolato: questo accade frequentemente, ma è più grave quando si parla di una regione di frontiera, dove si sovrappongono lingue, culture politiche, aspirazioni contrastanti, memorie divise, ma anche logiche diverse che governano gli accadimenti rispetto a quel che è avvenuto in Italia. Un esempio da manuale è quello delle stragi del 1945 – cioè le foibe – che rappresentano la coda più occidentale di un’enorme ondata di violenza politica che ha riguardato tutti i territori liberati dai tedeschi nel medesimo periodo da parte delle truppe jugoslave, e che ha condotto all’eliminazione fisica di tutti coloro che si erano compromessi con il potere tedesco (e prima italiano) o che comunque erano considerati pericolosamente ostili all’instaurazione del nuovo regime comunista. Stiamo parlando di molte decine di migliaia di persone, in un gigantesco bagno di sangue. Ovviamente, nei territori popolati da italiani le vittime furono quasi solo italiane, perché erano gli italiani ad essere legati al potere che si voleva distruggere ed anche perché fra loro – antifascisti non comunisti compresi – era diffusa la contrarietà all’annessione alla Jugoslavia di Tito.

Guardando quindi il fenomeno “dalla parte giusta”, da est verso ovest, in una prospettiva jugoslava piuttosto che italiana, questo diventa molto più comprensibile, il che non vuol dire affatto giustificabile, perché rientra sempre fra i casi di criminalità politica di massa.

Quali sono le caratteristiche che rendono particolare la foiba di Basovizza?

In primo luogo, non è una foiba, cioè un abisso naturale, ma un pozzo minerario; però questo è largamente irrilevante. In secondo luogo, si tratta della cavità in cui è stato probabilmente occultato il maggior numero di salme di italiani uccisi in entrambe le stagioni della violenza di massa, quella dell’autunno 1943 e quella della primavera 1945: l’ordine di grandezza dovrebbe essere di alcune centinaia di vittime. Peraltro – altro connotato essenziale – mentre le testimonianze sono cospicue, manca il corpo del delitto, perché i recuperi non sono mai stati possibili per ragioni tecniche. Comprensibilmente, ciò ha innescato per decenni polemiche a non finire, ancora non del tutto sopite.

A suscitarle ha poderosamente contribuito la geniale trovata comunicativa di un giornalista dell’epoca che, non sapendo che cosa scrivere, ipotizzò che nella cubatura di detriti che ingombra il pozzo potessero esser stati ammucchiati fino a 1.500 cadaveri. Rapidamente, nell’uso pubblico e politico, tale ipotesi si è trasformata nei 1.500 italiani infoibati a Basovizza, in alcuni casi poi lievitati per virtù propria fino a 2.000 0 2.500. È facile capire come tale disinvoltura abbia prestato il fianco a critiche feroci, che in molti casi si sono spinte oltre, cioè fino al punto di negare che qualcuno nella foiba sia stato effettivamente gettato.

Il cortocircuito fra storia e mito è stato poi alimentato dal fatto che, comunque siano andate le cose, il sito è divenuto il simbolo di tutte le violenze subite dagli italiani fra guerra e dopoguerra ed il luogo privilegiato delle cerimonie commemorative. A questo punto, il nodo è diventato gordiano, fino a che i presidenti delle repubbliche di Italia e Slovenia, nel luglio 2020, hanno deciso di tagliarlo con un gesto di pietà condivisa, che va oltre le memorie ed i giudizi storici.

Nel corso degli anni c’è stata molta confusione sul numero degli infoibati, secondo gli studi più recenti qual è il numero delle vittime?

Con certezza non si sa, perché lo stato delle fonti non lo consente. È possibile tuttavia farsi un’idea di quale sia l’ordine di grandezza complessivo delle vittime delle due ondate di violenza del 1943 e 1945, subito precisando che il termine “infoibati” rischia di depistare il lettore, perché molti degli uccisi trovarono la morte in altra maniera ed i loro corpi sono finiti chissà dove. Meglio quindi è parlare complessivamente degli “scomparsi”.

Per il 1943 tale ordine di grandezza è abbastanza facile da stabilire ed è di 500 vittime, concentrate nella provincia di Pola. Per il 1945 invece i calcoli sono complicatissimi. Ci aiuta una ricerca compiuta dall’Istat alla fine degli anni ’50, secondo la quale il numero delle vittime civili nelle sole province di Udine, Gorizia e Trieste ammonterebbe a 2.627. Ovviamente, le cifre finali possono ballare un po’ com’è inevitabile in questi casi, però è un buon inizio. A tale risultato – magari depurato da errori e doppioni – vanno sommati gli uccisi nelle province di Pola, Fiume e Zara. Per Fiume abbiamo una stima molto buona, frutto di un esemplare lavoro di collaborazione fra la Società di studi fiumani ed alcuni ricercatori croati, che fissa il totale dei caduti a circa 600. Nulla del genere, purtroppo, è stato fatto per l’Istria, ma per Pola e la parte meridionale della penisola una buona stima è di circa 800 persone, cui bisogna aggiungere gli scomparsi dal resto della provincia, comprese le zone interne a popolamento croato, dove pure vi furono delle vittime. Quanto a Zara, le violenze riguardarono solo l’aliquota residuale di popolazione rimasta in città dopo che la maggioranza era già sfollata in Italia a seguito dei bombardamenti aerei del 1943-44, che distrussero praticamente tutto il centro urbano. Le stime correnti parlano di più di 100 vittime.

Siamo arrivati dunque ad almeno 4.000 unità, alle quali vanno aggiunte le vittime militari. Qui però la situazione delle fonti è ancora peggiore, perché che la documentazione di cui disponiamo non distingue tra i vari flussi di prigionieri che si sono accavallati nel corso del tempo in mani jugoslave: quelli appunto fatti prigionieri nella Venezia Giulia a fine guerra; quelli – molto più numerosi – catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e successivamente divenuti prigionieri dell’armata popolare; ed infine quelli internati in Germania dopo l’armistizio, liberatisi nella primavera del 1945 e che hanno avuto la pessima idea di attraversare la Jugoslavia per cercare di tornare in Italia, con l’unico risultato di venir nuovamente arrestati e costretti a “collaborare” con il loro lavoro alla ricostruzione di quello Stato che avevano precedentemente distrutto. Ipotizzare, sulla base delle denunce di scomparsa – peraltro probabilmente parziali e non sempre attendibili – che fra le migliaia di catturati nella primavera del 1945 parecchie centinaia non siano tornati sembra ragionevole, ma oltre è davvero difficile andare.

Complessivamente quindi a che fare con un ordine di grandezza di alcune migliaia di vittime, sembrerebbe fra le quattro e le cinque. Di più, è francamente improbabile, a meno di non conteggiare – come fa disinvoltamente qualche elenco – anche i caduti in combattimento italiani contro i partigiani, magari anche nella Dalmazia annessa dopo il 1941, ovvero di dar per certi tutti i presunti il che, fortunatamente per loro, non è vero. Di meno, è possibile, come esito di un’accurata ripulitura degli elenchi da errori e doppioni, ma probabilmente non di molto.

Molto spesso c’è lo stereotipo diffuso di definire gli esuli come fascisti, da dove nasce questo stereotipo?

In primo luogo, naturalmente, dal fascismo stesso, che durante in Ventennio ha fatto tutto quel che poteva per convincere i cittadini della Venezia Giulia che Italia e fascismo erano la stessa cosa. Purtroppo ci è riuscito piuttosto bene, nel senso che per i partigiani sloveni e croati dire italiani o dire fascisti era equivalente. La situazione non cambiò molto nel dopoguerra nei territori sotto controllo jugoslavo. Qui i vertici del partito comunista usavano il termine “fascista” con un significato assai largo, ad esempio come sinonimo di “legato al potere italiano”, oppure di “ostile al movimento di liberazione”, ovvero anche di “contrario all’annessione alla Jugoslavia” e “avverso alla costruzione del socialismo”. Ricadere in tale categoria per gli italiani era quindi piuttosto facile: è vero che ai livelli decisionali superiore si faceva distinzione fra gli “italiani onesti e buoni” e i ”residui del fascismo”, ma i quadri locali, di estrazione partigiana, tendevano in genere a semplificare.

Ora, ufficialmente la politica del governo jugoslavo, concordata con il partito comunista italiano, era quella della “fratellanza italo-slava”, che prevedeva il mantenimento in Istria ed a Fiume di una minoranza italiana, tutelata per legge, anche se drasticamente ridimensionate rispetto all’anteguerra. In concreto, la “fratellanza” non funzionò, per i suoi stessi limiti (si trattava di una politica di integrazione selettiva a condizioni particolarmente pesanti), per le sue difficoltà di applicazione da parte dei dirigenti locali che non ci credevano e, da ultimo, perché la crisi del Cominform spiazzò completamente i comunisti italiani, gli unici ad aver cercato di integrarsi nel sistema jugoslavo.

Ma nel 1946 e 1947, quando in Italia cominciarono ad arrivare le prime ondate di profughi, fra Tito e Stalin non era ancora scoppiato il gelo e dunque, per il PCI, chi fuggiva dalla Jugoslavia socialista non poteva che essere un anticomunista, cioè un fascista. Da ciò episodi anche clamorosi di ostilità nei confronti dei profughi e la diffusione dello stereotipo, duro a morire, negli ambienti della sinistra.

Come è cambiata la memoria delle foibe dopo l’istituzione della giornata del Ricordo? C’è stata una maggiore attenzione anche degli storici?

Le memorie di frontiera naturalmente sono sempre le medesime, soggettive, divise e certo non interscambiabili, ma fortunatamente si parla sempre meno della necessità di una “memoria condivisa”, che è una contraddizione in termini rispetto alla soggettività dei ricordi, e sempre più di riconoscimento delle varie memorie e di reciproco rispetto. Fra le diverse memorie, quella che sino agli anni ’90 del ‘900 era più a rischio, era quella dell’esodo e, più in generale, della stessa esistenza storica delle comunità italiane in Istria e a Fiume. Oggi invece questa memoria è stata salvata, ha suscitato l’attenzione di studiosi e media ed in alcuni casi è stata anche monumentalizzata.

Se invece parliamo della conoscenza storica diffusa nel Paese, allora questa è certo aumentata, vuoi per le celebrazioni ufficiali, vuoi e soprattutto per l’intensissima attività didattica sviluppata da numerosi soggetti, istituzionali e privati. È tuttora molto polarizzata sulle foibe – dramma dal grande impatto emotivo e facilmente comunicabile – meno sull’esodo, che pur rappresenta un fenomeno di gran lunga più significativo e, addirittura, periodizzante. Ancora una volta, si tratta di uno squilibrio legato all’uso politico ed alla funzione selettiva ed amplificatrice dei mezzi di comunicazione.

La “riscoperta” della storia del confine orientale ha riguardato anche la storiografia, dapprima semplicemente con una maggior attenzione ai prodotti di chi già si occupava, prevalentemente in sede locale, di quelle vicende, poi anche con nuove ricerche. Avviene qui il rovescio di quanto accade nell’uso pubblico: in quello prevale l’attenzione per le foibe, sul piano degli studi invece per l’esodo. È logico che sia così. Le stragi del 1943 e del 1945 sono state un’esperienza drammatica e traumatica, ma circoscritta e spiegabile con una certa facilità: le fonti decisive sono note da un trentennio e per le indagini si tratta di una pista ormai fredda. L’esodo invece è stato un fenomeno assai più ampio ed articolato, snodatosi per più di un decennio e che ha coinvolto un’intera società locale ben articolata. Si tratta quindi di un campo di ricerca assai vasto non solo per la storia politica, ma anche per quella sociale e per l’antropologia, sia che si studi la fase distruttiva, cioè lo scompaginamento e sradicamento delle comunità italiane dalle loro sedi storiche d’insediamento, sia che si affrontino invece i temi della profuganza, dell’accoglienza e della ricostruzione delle esistenze individuali e comunitarie nella diaspora.

Fra le novità infine dell’ultimo ventennio, va segnalata la funzione importante di alcuni storici di frontiera di nuova generazione, talvolta residenti in Croazia, talaltra in Italia, ma portatori di doppia cittadinanza, di competenze linguistiche e di conoscenze storiografiche che consentono loro di muoversi agevolmente nei diversi contesti. È a loro, ad esempio, che dobbiamo gli studi più innovativi sulla realtà istriana del secondo dopoguerra, condotti sulle fonti ex jugoslave, che siamo ora finalmente in grado di incrociare con quelle italiane, in modo da consentire una visione a tutto tondo di vicende obiettivamente assai complesse.

Giorno del Ricordo: Intervista a Raoul Pupo

Raoul Pupo è uno storico italiano, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste, tra i massimi conoscitori dell’Esodo giuliano-dalmata e dei massacri delle foibe.

Quali sono secondo Lei le principali motivazioni per cui il giorno del Ricordo è ancora così divisivo?

Una sola: la politicizzazione. La legge istitutiva è stata a suo tempo approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento con un gesto denso di significato, perché ha voluto dire che le vittime delle tragedie del confine orientale non erano i caduti di una parte della nazione (fascisti, nazionalisti) ma di tutta la nazione. Poi, nel corso del tempo, ci sono stati vari tentativi di forzare questa grande e fondamentale acquisizione: abbiamo assistito e stiamo tuttora assistendo a vere e proprie campagne di “colonizzazione” del giorno del Ricordo da parte della destra italiana ed in particolare di alcune forze politiche, anche attraverso la diffusione di interpretazioni, dati e formule proprie della cultura nazionalista e che mai hanno avuto cittadinanza nella comunità degli storici. Contemporaneamente, alcuni nuclei di irriducibili zelatori della repubblica federativa jugoslava hanno continuato a riproporre invece quelle che erano state le tesi prima delle propaganda e poi della storiografia di regime della Jugoslavia comunista: le stragi delle foibe sono solo un’invenzione della propaganda fascista; c’è stata solo la giusta punizione di qualche criminale; tutti quelli che sono stati colpiti nel 1943 e nel 1945 dovevano essere colpevoli, altrimenti non li avrebbero presi; l’esodo è stata un’emigrazione verso il benessere capitalista oppure il frutto di un inganno del governo italiano, e così via. Beninteso, si tratta di frange assai circoscritte, collocate all’estrema sinistra, ma molto attive sul web.

Vero è, che talvolta i loro giudizi vengono espressi in modi anche assai irriguardosi per le memorie dolorose e questo ha suscitato comprensibile, grave disappunto fra parenti ed eredi delle vittime. Da qualche anno a questa parte però, ciò ha innescato una campagna allarmista da parte di alcune associazioni di profughi e delle forze politiche di destra, che ha finito per ingigantire un fenomeno in realtà marginale. Ma non basta. Sempre dalla medesima parte, si è diffusa nell’uso pubblico l’abitudine di tacciare di “negazionismo”, o almeno del suo cugino “riduzionismo”, qualsiasi intervento che metta in discussione la rispolverata vulgata nazionalista.

Rispunta dunque la logica maledetta dell’intolleranza, che tanto sembra piacere di questi tempi, specie a chi privilegia le logiche della pancia rispetto a quelle del cervello. Fortunatamente, tale deriva è stata contrastata da molte altre iniziative ben più attente al rigore storico ed interessate invece a costruire percorsi di pacificazione. È questo il caso, ad esempio, delle attività promosse dalla rete degli Istituti per la storia della resistenza, che ben prima dell’istituzione della giornata memoriale avevano mostrato grande sensibilità per la storia del confine orientale. Ma ciò che più conta, vi sono stati alcuni interventi riequilibratori dei vertici istituzionali, cioè dei presidenti della Repubblica, che si sono spesi oltre ogni speranza in una logica di riconciliazione fra i popoli e le loro memorie. Speriamo che vengano ascoltati.

In Italia si parla spesso di infoibati italiani trascurando il fatto che il fenomeno ha coinvolto anche sloveni e croati. Quali sono le motivazioni che portano a trascurare questi aspetti?

Principalmente la poca conoscenza, spesso alimentata anche dai media, che preferiscono le semplificazioni rispetto alla delineazione di un quadro più articolato: questo accade frequentemente, ma è più grave quando si parla di una regione di frontiera, dove si sovrappongono lingue, culture politiche, aspirazioni contrastanti, memorie divise, ma anche logiche diverse che governano gli accadimenti rispetto a quel che è avvenuto in Italia. Un esempio da manuale è quello delle stragi del 1945 – cioè le foibe – che rappresentano la coda più occidentale di un’enorme ondata di violenza politica che ha riguardato tutti i territori liberati dai tedeschi nel medesimo periodo da parte delle truppe jugoslave, e che ha condotto all’eliminazione fisica di tutti coloro che si erano compromessi con il potere tedesco (e prima italiano) o che comunque erano considerati pericolosamente ostili all’instaurazione del nuovo regime comunista. Stiamo parlando di molte decine di migliaia di persone, in un gigantesco bagno di sangue. Ovviamente, nei territori popolati da italiani le vittime furono quasi solo italiane, perché erano gli italiani ad essere legati al potere che si voleva distruggere ed anche perché fra loro – antifascisti non comunisti compresi – era diffusa la contrarietà all’annessione alla Jugoslavia di Tito.

Guardando quindi il fenomeno “dalla parte giusta”, da est verso ovest, in una prospettiva jugoslava piuttosto che italiana, questo diventa molto più comprensibile, il che non vuol dire affatto giustificabile, perché rientra sempre fra i casi di criminalità politica di massa.

Quali sono le caratteristiche che rendono particolare la foiba di Basovizza?

In primo luogo, non è una foiba, cioè un abisso naturale, ma un pozzo minerario; però questo è largamente irrilevante. In secondo luogo, si tratta della cavità in cui è stato probabilmente occultato il maggior numero di salme di italiani uccisi in entrambe le stagioni della violenza di massa, quella dell’autunno 1943 e quella della primavera 1945: l’ordine di grandezza dovrebbe essere di alcune centinaia di vittime. Peraltro – altro connotato essenziale – mentre le testimonianze sono cospicue, manca il corpo del delitto, perché i recuperi non sono mai stati possibili per ragioni tecniche. Comprensibilmente, ciò ha innescato per decenni polemiche a non finire, ancora non del tutto sopite.

A suscitarle ha poderosamente contribuito la geniale trovata comunicativa di un giornalista dell’epoca che, non sapendo che cosa scrivere, ipotizzò che nella cubatura di detriti che ingombra il pozzo potessero esser stati ammucchiati fino a 1.500 cadaveri. Rapidamente, nell’uso pubblico e politico, tale ipotesi si è trasformata nei 1.500 italiani infoibati a Basovizza, in alcuni casi poi lievitati per virtù propria fino a 2.000 0 2.500. È facile capire come tale disinvoltura abbia prestato il fianco a critiche feroci, che in molti casi si sono spinte oltre, cioè fino al punto di negare che qualcuno nella foiba sia stato effettivamente gettato.

Il cortocircuito fra storia e mito è stato poi alimentato dal fatto che, comunque siano andate le cose, il sito è divenuto il simbolo di tutte le violenze subite dagli italiani fra guerra e dopoguerra ed il luogo privilegiato delle cerimonie commemorative. A questo punto, il nodo è diventato gordiano, fino a che i presidenti delle repubbliche di Italia e Slovenia, nel luglio 2020, hanno deciso di tagliarlo con un gesto di pietà condivisa, che va oltre le memorie ed i giudizi storici.

Nel corso degli anni c’è stata molta confusione sul numero degli infoibati, secondo gli studi più recenti qual è il numero delle vittime?

Con certezza non si sa, perché lo stato delle fonti non lo consente. È possibile tuttavia farsi un’idea di quale sia l’ordine di grandezza complessivo delle vittime delle due ondate di violenza del 1943 e 1945, subito precisando che il termine “infoibati” rischia di depistare il lettore, perché molti degli uccisi trovarono la morte in altra maniera ed i loro corpi sono finiti chissà dove. Meglio quindi è parlare complessivamente degli “scomparsi”.

Per il 1943 tale ordine di grandezza è abbastanza facile da stabilire ed è di 500 vittime, concentrate nella provincia di Pola. Per il 1945 invece i calcoli sono complicatissimi. Ci aiuta una ricerca compiuta dall’Istat alla fine degli anni ’50, secondo la quale il numero delle vittime civili nelle sole province di Udine, Gorizia e Trieste ammonterebbe a 2.627. Ovviamente, le cifre finali possono ballare un po’ com’è inevitabile in questi casi, però è un buon inizio. A tale risultato – magari depurato da errori e doppioni – vanno sommati gli uccisi nelle province di Pola, Fiume e Zara. Per Fiume abbiamo una stima molto buona, frutto di un esemplare lavoro di collaborazione fra la Società di studi fiumani ed alcuni ricercatori croati, che fissa il totale dei caduti a circa 600. Nulla del genere, purtroppo, è stato fatto per l’Istria, ma per Pola e la parte meridionale della penisola una buona stima è di circa 800 persone, cui bisogna aggiungere gli scomparsi dal resto della provincia, comprese le zone interne a popolamento croato, dove pure vi furono delle vittime. Quanto a Zara, le violenze riguardarono solo l’aliquota residuale di popolazione rimasta in città dopo che la maggioranza era già sfollata in Italia a seguito dei bombardamenti aerei del 1943-44, che distrussero praticamente tutto il centro urbano. Le stime correnti parlano di più di 100 vittime.

Siamo arrivati dunque ad almeno 4.000 unità, alle quali vanno aggiunte le vittime militari. Qui però la situazione delle fonti è ancora peggiore, perché che la documentazione di cui disponiamo non distingue tra i vari flussi di prigionieri che si sono accavallati nel corso del tempo in mani jugoslave: quelli appunto fatti prigionieri nella Venezia Giulia a fine guerra; quelli – molto più numerosi – catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e successivamente divenuti prigionieri dell’armata popolare; ed infine quelli internati in Germania dopo l’armistizio, liberatisi nella primavera del 1945 e che hanno avuto la pessima idea di attraversare la Jugoslavia per cercare di tornare in Italia, con l’unico risultato di venir nuovamente arrestati e costretti a “collaborare” con il loro lavoro alla ricostruzione di quello Stato che avevano precedentemente distrutto. Ipotizzare, sulla base delle denunce di scomparsa – peraltro probabilmente parziali e non sempre attendibili – che fra le migliaia di catturati nella primavera del 1945 parecchie centinaia non siano tornati sembra ragionevole, ma oltre è davvero difficile andare.

Complessivamente quindi a che fare con un ordine di grandezza di alcune migliaia di vittime, sembrerebbe fra le quattro e le cinque. Di più, è francamente improbabile, a meno di non conteggiare – come fa disinvoltamente qualche elenco – anche i caduti in combattimento italiani contro i partigiani, magari anche nella Dalmazia annessa dopo il 1941, ovvero di dar per certi tutti i presunti il che, fortunatamente per loro, non è vero. Di meno, è possibile, come esito di un’accurata ripulitura degli elenchi da errori e doppioni, ma probabilmente non di molto.

Molto spesso c’è lo stereotipo diffuso di definire gli esuli come fascisti, da dove nasce questo stereotipo?

In primo luogo, naturalmente, dal fascismo stesso, che durante in Ventennio ha fatto tutto quel che poteva per convincere i cittadini della Venezia Giulia che Italia e fascismo erano la stessa cosa. Purtroppo ci è riuscito piuttosto bene, nel senso che per i partigiani sloveni e croati dire italiani o dire fascisti era equivalente. La situazione non cambiò molto nel dopoguerra nei territori sotto controllo jugoslavo. Qui i vertici del partito comunista usavano il termine “fascista” con un significato assai largo, ad esempio come sinonimo di “legato al potere italiano”, oppure di “ostile al movimento di liberazione”, ovvero anche di “contrario all’annessione alla Jugoslavia” e “avverso alla costruzione del socialismo”. Ricadere in tale categoria per gli italiani era quindi piuttosto facile: è vero che ai livelli decisionali superiore si faceva distinzione fra gli “italiani onesti e buoni” e i ”residui del fascismo”, ma i quadri locali, di estrazione partigiana, tendevano in genere a semplificare.

Ora, ufficialmente la politica del governo jugoslavo, concordata con il partito comunista italiano, era quella della “fratellanza italo-slava”, che prevedeva il mantenimento in Istria ed a Fiume di una minoranza italiana, tutelata per legge, anche se drasticamente ridimensionate rispetto all’anteguerra. In concreto, la “fratellanza” non funzionò, per i suoi stessi limiti (si trattava di una politica di integrazione selettiva a condizioni particolarmente pesanti), per le sue difficoltà di applicazione da parte dei dirigenti locali che non ci credevano e, da ultimo, perché la crisi del Cominform spiazzò completamente i comunisti italiani, gli unici ad aver cercato di integrarsi nel sistema jugoslavo.

Ma nel 1946 e 1947, quando in Italia cominciarono ad arrivare le prime ondate di profughi, fra Tito e Stalin non era ancora scoppiato il gelo e dunque, per il PCI, chi fuggiva dalla Jugoslavia socialista non poteva che essere un anticomunista, cioè un fascista. Da ciò episodi anche clamorosi di ostilità nei confronti dei profughi e la diffusione dello stereotipo, duro a morire, negli ambienti della sinistra.

Come è cambiata la memoria delle foibe dopo l’istituzione della giornata del Ricordo? C’è stata una maggiore attenzione anche degli storici?

Le memorie di frontiera naturalmente sono sempre le medesime, soggettive, divise e certo non interscambiabili, ma fortunatamente si parla sempre meno della necessità di una “memoria condivisa”, che è una contraddizione in termini rispetto alla soggettività dei ricordi, e sempre più di riconoscimento delle varie memorie e di reciproco rispetto. Fra le diverse memorie, quella che sino agli anni ’90 del ‘900 era più a rischio, era quella dell’esodo e, più in generale, della stessa esistenza storica delle comunità italiane in Istria e a Fiume. Oggi invece questa memoria è stata salvata, ha suscitato l’attenzione di studiosi e media ed in alcuni casi è stata anche monumentalizzata.

Se invece parliamo della conoscenza storica diffusa nel Paese, allora questa è certo aumentata, vuoi per le celebrazioni ufficiali, vuoi e soprattutto per l’intensissima attività didattica sviluppata da numerosi soggetti, istituzionali e privati. È tuttora molto polarizzata sulle foibe – dramma dal grande impatto emotivo e facilmente comunicabile – meno sull’esodo, che pur rappresenta un fenomeno di gran lunga più significativo e, addirittura, periodizzante. Ancora una volta, si tratta di uno squilibrio legato all’uso politico ed alla funzione selettiva ed amplificatrice dei mezzi di comunicazione.

La “riscoperta” della storia del confine orientale ha riguardato anche la storiografia, dapprima semplicemente con una maggior attenzione ai prodotti di chi già si occupava, prevalentemente in sede locale, di quelle vicende, poi anche con nuove ricerche. Avviene qui il rovescio di quanto accade nell’uso pubblico: in quello prevale l’attenzione per le foibe, sul piano degli studi invece per l’esodo. È logico che sia così. Le stragi del 1943 e del 1945 sono state un’esperienza drammatica e traumatica, ma circoscritta e spiegabile con una certa facilità: le fonti decisive sono note da un trentennio e per le indagini si tratta di una pista ormai fredda. L’esodo invece è stato un fenomeno assai più ampio ed articolato, snodatosi per più di un decennio e che ha coinvolto un’intera società locale ben articolata. Si tratta quindi di un campo di ricerca assai vasto non solo per la storia politica, ma anche per quella sociale e per l’antropologia, sia che si studi la fase distruttiva, cioè lo scompaginamento e sradicamento delle comunità italiane dalle loro sedi storiche d’insediamento, sia che si affrontino invece i temi della profuganza, dell’accoglienza e della ricostruzione delle esistenze individuali e comunitarie nella diaspora.

Fra le novità infine dell’ultimo ventennio, va segnalata la funzione importante di alcuni storici di frontiera di nuova generazione, talvolta residenti in Croazia, talaltra in Italia, ma portatori di doppia cittadinanza, di competenze linguistiche e di conoscenze storiografiche che consentono loro di muoversi agevolmente nei diversi contesti. È a loro, ad esempio, che dobbiamo gli studi più innovativi sulla realtà istriana del secondo dopoguerra, condotti sulle fonti ex jugoslave, che siamo ora finalmente in grado di incrociare con quelle italiane, in modo da consentire una visione a tutto tondo di vicende obiettivamente assai complesse.

Un’altra patria. Intervista a Marco Labbate

Articolo in Evidenza

Marco Labbate ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi umanistici all’Università di Urbino e collabora con il Centro studi Sereno Regis. Tra le sue più recenti pubblicazioni vorrei ricordare Fonderia Montecatini . Storia di una fabbrica pesarese (Futura, 2021),  un saggio all’interno del libro curato da Cesare Panizza e Silvia Cecchi Indagare l’Italia repubblicana. Momenti di una storia lunga 75 anni 1946-2021 (Aras, 2021) e il libro di cui parleremo oggi Un’altra patria. L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana.( Pacini editore, 2020)

Il tema della pace fu molto sentito nel dibattito dell’immediato secondo dopoguerra.  Questa sensibilità dopo due guerre mondiali portò ad una discussione nell’Assemblea  costituente anche del tema dell’obiezione di coscienza come alternativa al servizio militare? Quali culture politiche cercarono di portare l’attenzione su questo tema?

Si tratta di una discussione a mio avviso stupefacente. Pensi che all’epoca non ci sono obiettori, a parte lo sconosciuto pentecostale Rodrigo Castiello, né movimenti pacifisti consolidati. A chiedere il riconoscimento dell’obiezione di coscienza c’era solo l’ex-sacerdote modernista Giovanni Pioli e un Movimento per la riforma religiosa, appena costituito da Capitini. A raccogliere questi appelli e a portarli nell’Assemblea costituente nel maggio 1947 è il Partito socialista dei lavoratori italiani, staccatosi dalla casa madre con la scissione di Palazzo Barberini. Nelle persone di Arrigo Cairo, Umberto Calosso ed Ernesto Caporali cerca di far approvare in Costituzione un superamento del servizio militare obbligatorio e una riduzione delle spese militari. Riprendere in mano la tradizione antimilitarista del socialismo serve alla nuova formazione per marcare la distanza dal Partito socialista di Nenni. Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza viene introdotto da Caporali, in un emendamento a quello che sarebbe diventato l’articolo 52. Il suo intervento merita di essere riletto, per la sorprendente modernità: propone una visione larga di difesa della patria, che va oltre il mero aspetto militare. La questione rimane marginale ed è comprensibile: anche Caporali rivolge lo sguardo all’orizzonte inglese, proponendo una norma del futuro, per il momento quasi senza riscontri in Italia. Non vi erano spazi per questa proposta, in un quadro politico che la guerra fredda andava radicalizzando.

Il primo obiettore di coscienza  in Italia fu Pietro Pinna, che durante il processo venne difeso dall’avvocato torinese Bruno Segre, come venne vista questa vicenda nel dibattito pubblico?

Il caso Pinna rappresenta il passaggio dell’obiezione di coscienza, da momento privato, interamente risolto nel foro interiore e nel chiuso di un tribunale militare, ad atto pubblico. L’immagine di Pinna, nella sua irremovibile semplicità è potente. La stampa si interessa al suo caso inusuale: un ragazzo comune che compie un gesto così dirompente. Il conflitto sofocleo che si svolge nel tribunale militare di Torino tra l’autorità e l’obiettore viene raccontato diffusamente sui quotidiani e persino su rotocalchi nazional-popolari o su fogli sensazionalistici, come «Crimen». Il Paese si appassiona così alla sorte di questo ragazzo e prende posizione. Ma la forza della figura di Pinna da sola non sarebbe bastata: le autorità militari non avevano alcuna intenzione di farne un caso nazionale. Se questo accade è anche perché attorno a Capitini si raccoglie un movimento che divulga le notizie, coinvolge giornalisti e parlamentari. Oltre al già citato Giovanni Pioli vi sono altre importanti figure che sostengono l’obiettore: lo jesino Edmondo Marcucci, il poeta Guido Ceronetti (è un aspetto poco noto della sua storia), Umberto Calosso, che porta la questione di Pinna in Parlamento e assieme al cattolico Igino Giordani presenta la prima proposta di legge per riconoscere l’obiezione di coscienza, e, appunto, Bruno Segre. Non è solo è l’avvocato che difende Pinna e “inventa” lo schema difensivo per un reato non contemplato da nessun codice. Il mensile «L’Incontro», di cui è il direttore, diventa una voce assidua nel panorama dell’obiezione in Italia.

Il rifiuto di Pietro Pinna, fu anche influenzato dal filosofo Aldo Capitini. Quali furono altri intellettuali che intervennero su questo tema ? il filosofo politico torinese Norberto Bobbio intervenne su questo tema ?

 La relazione tra obiezione di coscienza e mondo intellettuale è presente fin dalle origini. L’obiezione di coscienza sorge come istanza morale e filosofica in un gruppo di intellettuali, che per ragioni di età, non possono fare obiezione. Al tempo stesso le frequenti censure che coinvolgono l’obiezione la legano alla libertà d’espressione, particolarmente cara agli intellettuali. Fin dall’inizio sostengono il suo riconoscimento figure di primo piano come Arturo Carlo Jemolo. I legami tra obiezione di coscienza e mondo intellettuale procedono a tratti, rafforzandosi quando appunto l’obiezione di coscienza entra in collisione con la limitazione delle libertà. L’Associazione per la libertà della cultura, che raccoglie personalità di rilievo come Guido Calogero, Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, dedica le dedica due importanti pubblicazioni nel 1962, dopo la censura del film di Autant Lara, Non uccidere. I manifesti contro le incriminazioni di Balducci o don Milani assomigliano a un elenco degli esponenti della cultura italiana di quegli anni. E ancora nel 1972 il digiuno di Pannella per il riconoscimento dell’obiezione ottiene il sostegno di un parterre internazionale di scrittori e intellettuali, tra cui tre premi Nobel. In Parlamento tra i protagonisti nel dibattito sulla legge si segnala per gli interventi di altissima levatura Franco Antonicelli. Quanto a Bobbio non assume un ruolo di primo piano, ma il suo contributo al dibattito attorno al film di Autant Lara, ha una valenza non trascurabile. Interviene alla Gam di Torino, in un’iniziativa organizzata dall’Unione culturale alla quale partecipano anche Bianca Guidetti Serra e Franco Antonicelli. Ci rimane solo la sua relazione, pubblicata nella raccolta di saggi Il Terzo assente. Secondo me si tratta tuttavia di un intervento fondamentale per la lucida chiarezza con cui affronta il tema. Evidenza i motivi su cui tradizionalmente si basava la giustificazione della guerra e ne dichiara il superamento di fronte alla novità rappresentata dall’era atomica che può portare all’annientamento della vita sulla terra: «Se interroghiamo la nostra coscienza» conclude «non possiamo più rifiutarci di riconoscere che oggi siamo, almeno in potenza, tutti quanti obiettori».

Nel suo libro fa molto riferimento al mondo cattolico, il tema della pace venne trattato per la prima volta in modo nuovo all’interno della Chiesa con l’enciclica di Giovanni  XXIII e poi ci fu il Concilio Vaticano II. Quali cambiamenti portò nel modo di affrontare il tema dell’obiezione di coscienza nel mondo cattolico ?

 Nella Pacem in terris l’obiezione di coscienza non viene trattata, ma l’impalcatura teologica dell’enciclica archivia la secolare dottrina della guerra giusta e del principio di presunzione, ovvero della competenza del giudizio sulla giustizia di una guerra alla sola autorità politica. Assieme alla nonviolenza, l’obiezione è tra i temi lasciati in eredità al Concilio Vaticano II. Nella Gaudium et spes riceve un riconoscimento molto parziale. Si tratta di una formula di compromesso tra il clero conservatore, che fino all’ultimo tenta di affossare anche questo statuto dimezzato, e quello progressista che chiede maggiore coraggio. Ma è comunque una prima breccia dall’effetto rivoluzionario. Se fino a quel momento, anche nei tribunali militari, si condannava l’obiezione di coscienza come incompatibile col punto di vista cattolico (i giudici teologi non erano figure rare!), ora non è più possibile. Non solo. Questa fessura si allarga rapidamente. Diversi alti prelati e vescovi prendono subito una posizione più avanzata che, alla luce della Gaudium et spes, è legittimata. Nella Popolarum progressio Paolo VI si spinge un poco oltre. Nel 1968 un organismo ufficiale, la Commissione pontificia Justitia et pax invita le comunità parrocchiali a dare il proprio sostegno agli obiettori. Nel 1971 il Sinodo della Conferenza episcopale avrebbe affermato di voler favorire la strategia della nonviolenza e chiesto di regolare mediante le leggi l’obiezione di coscienza.

Quale fu  invece la posizione sull’obiezione di coscienza del Pci, e vi fu una differenza di posizioni  successivamente con altri movimenti  di sinistra?

La posizione del Pci rispetto all’obiezione di coscienza è sostanzialmente di estraneità: l’obiezione di coscienza non è compatibile con la dottrina marxista-leninista, che riconosce la necessità storica della violenza rivoluzionaria, né con la sua storia resistenziale, né con l’approccio politico, che vede nella partecipazione del militante al servizio militare un dovere, ma anche un’opportunità di propaganda. Vi è poi una necessità del partito nuovo di Togliatti di essere rassicurante per i ceti moderati di cui intende intercettare il consenso. L’obiezione di coscienza non è dunque moneta di pregio, un comportamento individualista e borghese, al quale rivolge un’inscalfibile indifferenza. Nella pratica tuttavia il Pci porta avanti mobilitazioni di massa, affini all’obiezione di coscienza, come il rifiuto dei portuali di scaricare armi americane dopo la firma del Patto Atlantico o la distruzione pubblica delle «cartoline rosa» inviate dal ministero della Difesa ai congedati, per avvisarli di un possibile richiamo alle armi. Negli anni Sessanta la posizione del Pci si sfuma. Diventa più attento al dissenso cattolico e dunque anche all’obiezione di coscienza. Tuttavia la sua linea rimane quella del distacco. Le promesse di un’iniziativa parlamentare sul tema rimangono senza seguito. I giornali comunisti accendono l’attenzione sull’obiezione di coscienza soprattutto quando suscita contraddizioni nel campo cattolico. Non è un caso che a divulgare la Lettera ai cappellani di don Milani siano in prima battuta «l’Unità» e poi «Rinascita», imputata assieme al priore (compagnia poco gradita dal priore che non riteneva che una rivista comunista potesse fregiarsi di una battaglia per la libertà di coscienza). La freddezza tra Pci e obiezione di coscienza perdura anche al momento dell’approvazione della legge. Il Pci elabora una propria linea, intermedia tra quella restrittiva sostenuta dal governo, e le aperture presenti nella proposta socialista di Cipellini, ma sostanzialmente estranea al sentire degli obiettori. E almeno fino alla fine degli anni Settanta, quando l’Arci scende in campo su questo fronte, il Pci mantiene un certo distacco nei confronti del nuovo servizio civile.

Nel suo libro tratta anche di alcuni protagonisti ai margini come i testimoni di Geova e  la Chiesa valdese  che ruolo hanno avuto?

Si tratta di situazioni molto diverse. I testimoni di Geova sono poco inclini a dare risalto al loro gesto. Rifiutano in molti casi l’idea di un servizio civile e talvolta anche la stessa qualifica di obiettori. Chiedono infatti di essere esentati dal servizio militare come ministri di culto. Tuttavia la loro stessa presenza permette di mantenere viva l’istanza lungo tutta la storia repubblicana, anche quando dopo i casi di Pinna, Santi e degli anarchici Ferrua e Barbani, l’obiezione cade nel dimenticatoio. Pensiamo a questo unico dato: di 706 obiettori che si contano tra 1945 e 1972, 622 sono testimoni di Geova. La Chiesa valdese è invece una presenza attiva nel chiedere un riconoscimento dell’obiezione. È la prima chiesa italiana a prendere una posizione favorevole con il suo massimo organo, fin dalla fine degli anni Cinquanta. È l’esito di un dibattito interno cominciato ancor prima del caso di Pinna. Negli anni Sessanta la Chiesa valdese partecipa a iniziative, raccolte firme, petizioni anche a sostegno dei sacerdoti cattolici coinvolti nei processi, come padre Balducci o don Milani. Tuttavia non abbiamo obiettori valdesi almeno fino alla fine degli anni Sessanta, quando le componenti antimilitariste della contestazione irrompono anche nelle chiese. Mentre nel cattolicesimo i due percorsi paralleli, nella Chiesa valdese l’adesione personale all’obiezione di coscienza giunge con la sua politicizzazione, molti anni dopo rispetto all’impegno ideale per un suo riconoscimento.

L’obiezione di coscienza al servizio militare venne riconosciuta con la legge n. 772 del 1972 proposta dal deputato della sinistra Dc Giovanni  Marcora, in un fase politica dopo il sessantotto in cui vennero affermati molti diritti. Con questa legge, infatti  venne istituito anche il Servizio civile per gli obiettori coscienza come alternativa al servizio militare. Come il contesto politico e sociale influenzò il dibattito su questa legge ?

 La mobilitazione attorno all’obiezione di coscienza è fortemente influenzata dal Sessantotto. La contestazione dell’autorità che coinvolge scuola, fabbrica e famiglia non lascia immune l’esercito. Da poche decine di partecipanti le manifestazioni per l’obiezione coinvolgono centinaia, a volte migliaia di persone. Decisivo è l’apporto del Partito radicale che rispetto ai precedenti movimenti riesce a mobilitare masse consistenti, ben superiori al novero degli iscritti. Muta inoltre il linguaggio con cui i movimenti e gli obiettori parlano dell’obiezione di coscienza a cui ora danno un’accezione antimilitarista, inscrivendola nella lotta di classe. Ai nuovi obiettori politicizzati, i partiti di governo oppongono i “veri obiettori”, quelli che maturano la scelta nel loro animo, senza ostentarla, come i testimoni di Geova. Di questa contrapposizione rimane traccia nella legge che riconosce solo gli obiettori che adducono motivi filosofici e religiosi, non quelli politici. La nuova visibilità dell’obiezione di coscienza coinvolge anche i suoi avversari: le piazze nonviolente sono spesso assaltate dalla violenza neofascista che vuole arginarne la diffusione.

Piero Gobetti, l’editore come un creatore

Articolo in Evidenza

Editore ideale

Nella sua casa di via XX settembre, a Torino, Piero Gobetti appunta delle parole con cui suggella la sua proposta di editoria:

Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni più tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana, dopo aver scritto 10 lettere e 20 cartoline, rivedute le terze bozze del libro di Tilgher o di Nitti, preparati gli annunci editoriali per il libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo 3 correzioni, mandato via rassegnato dopo 40 minuti di discussione il tipografo che chiedeva un aumento di 10 lire per foglio, senza concederglielo; aiutato il facchino a scaricare le casse di libri arrivate troppo tardi quando ci sono solo più io ad aspettarlo, schiodata io stesso la prima cassa per vedere i primi esemplari e soffrire io solo del foglio che è sbiancato in una copia, e consolarmi che tutto il resto va bene, che né il legatore né il macchinista non han fatto nessuna gherminella […]. Penso un editore come un creatore. Creatore dal nulla[1].

E creatore, difatti, Gobetti lo sarà per la casa editrice che porta il suo nome e fondata il 25 marzo del 1923. L’intento è di creare il luogo di raccolta per quelle “energie nove”, parafrasando il nome della sua prima rivista, che emergono nel primo dopoguerra e che poi confluiscono nella militanza politico-culturale antifascista.

Quella di Gobetti è una concezione eclettica della professione editoriale: ha in mente una figura tuttofare, una sorta di artigiano dell’editoria che porta avanti un’attività condotta con slancio ed entusiasmo, calibrando la dimensione commerciale con quella dell’organizzazione della cultura. Quindi un’editoria libraria che ha come risultato un libro di cultura con una forte carica morale e educativa.

L’attività febbrile, Ossi di seppia, lo stupore di Carlo Levi

Quella dell’editore giovane, come spesso viene chiamato Gobetti, è una concezione moderna del fare libri. Attento osservatore del suo tempo, con uno sguardo sempre in avanti, è il primo a scommettere sul poeta di Genova che poi diventerà il Montale del premio Nobel: nel 1925 l’esordio della raccolta poetica Ossi di seppia è proprio con la Piero Gobetti Editore.

Il lavoro della casa editrice è frenetico, quasi come se Gobetti respirasse una qualche premonizione che lo avverte di non avere molto tempo a disposizione. Il catalogo si arricchisce di oltre un centinaio di pubblicazioni in tre anni, tra il 1923 e il 1925. Tanto che Carlo Levi, quando un giorno si reca in casa editrice e chiede di poter incontrare Piero Gobetti, è certo che l’editore sia un anziano. Resta invece sorpreso quando sulla porta un ragazzo con occhi vivacissimi e penetranti, una nuvola di ricci in testa, gli risponde: «Sono io».

Editoria come impegno antifascista

Piero Gobetti sceglie una grafica scarna per le proprie edizioni con l’intento di contrapporla all’eleganza editoriale e all’esasperato estetismo di quel periodo. Si tratta di una ruvidezza da intendere come essenzialità. È Felice Casorati a occuparsene e sempre lui disegna l’ex libris.

Si deve invece ad Augusto Monti il motto alfieriano TI MOI ΣΥΝ ΔΟΥΛOIΣΥΝ (“tì moi sun doulòisin?”; “che ho a che fare io con gli schiavi?”) che Gobetti decide di applicare in calce alle copertine dei libri per rimarcare ulteriormente il disegno antifascista. Difatti la Piero Gobetti Editore diventa l’approdo sicuro per gli autori che, a causa del clima di censura in atto nel Paese, vengono rifiutati dalla maggior parte degli editori. Vengono pubblicate opere di personalità come Luigi Sturzo o Francesco Saverio Nitti, noti per la loro opposizione politica a Mussolini. Bisogna ricordare, tra i tanti, anche il testo di Luigi Einaudi, Le lotte del lavoro, opera che si occupa delle origini del movimento operaio in Italia, o la monografia che Gobetti dedica a Matteotti all’indomani dell’omicidio.

Le censure da parte del regime proseguono fino alla diffida del 3 febbraio 1926 che obbliga Gobetti a sospendere l’attività editoriale e a un forzato esilio a Parigi. Mentre Mussolini ordina al prefetto di Torino di “rendere la vita impossibile a Piero Gobetti, insulso oppositore del governo e del fascismo”, il giovane editore continua ad affiancare la forza dirompente delle parole all’azione politica fino a quella morte prematura che, il 15 febbraio del 1926, mette fine alla sua breve esistenza.

L’eredità gobettiana

Ignoriamo come sarebbe l’editoria italiana oggi se la vita di Piero Gobetti non si fosse interrotta troppo in fretta, però possiamo vedere i frutti che da quella pianta sono nati. Molte esperienze editoriali hanno infatti seguito le orme gobettiane: si pensi, per esempio, a quella di Vanni Scheiwiller. Su tutte, però, la diretta depositaria è di sicuro la casa editrice che Giulio Einaudi fonda nel 1933 sempre a Torino, nella storica sede di via Biancamano.

Giulia Gioia


Note e bibliografia

[1] P. Gobetti, L’editore ideale, Lacaita Editore, Manduria 2006, pp. 63-65.

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