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Gramsci e Gobetti: la nascita di un binomio

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L’aspetto affrontato in questo articolo, è forse uno dei nodi storiografici centrali nella biografia politico culturale di Piero Gobetti in quanto ha condizionato anche lo studio del giovane intellettuale Torinese cioè il suo rapporto con Gramsci. In questa prima parte viene affrontata la nascita di questo binomio.

Il comunista Gramsci e il liberale Gobetti

Una testimonianza importante per capire il rapporto porto tra l’intellettuale comunista e il giovane intellettuale liberale è quella di Camilla Ravera raccolta da Paolo Gobetti nel libro Racconto interrotto.  Piero Gobetti nel ricordo degli amici. Camilla Ravera  racconta:

Mi ricordo quando io arrivai a Mosca nell’ottobre del ‘ 22 un delle prime domande che Gramsci mi fece fu questo: «E Piero Gobetti?» Io potevo dargli poche notizie perché in quel momento io ero già quasi entrata in clandestinità. [1]

AA. VV.,  Racconto interrotto. Piero Gobetti nel ricordo degli amici, Nuova immagine, 1992

Queste parole fanno capire la relazione di rispetto e stima tra l’intellettuale comunista e il giovane intellettuale liberale che può sembrare paradossale.  Il rapporto  tra il liberale Piero Gobetti e il comunista Antonio Gramsci, può essere di difficile comprensione se non si tiene conto del particolare contesto in cui si svolge la loro rapporto quella della Torino, capitale dell’industria italiana, dopo la prima guerra mondiale e la portata immensa della rivoluzione russa sembrava aver spalancato per i lavoratori e tutta l’umanità.

La nascita di un accostamento

L’inizio di questo giudizio su Gobetti si può far risalire a quando il giovane torinese invitò a Torino il fondatore della Voce Giuseppe Prezzolini per organizzare un incontro con Gramsci. Prezzolini su questo scrive:

Gramsci è uno degli uomini più notevoli dell’Italia. Il suo Ordine  ha una parola originale. E personalmente ha fede, energia, non lavora per il momento…Mi fermai per conoscere il gruppo di amici di Gobetti. È un’energia Gobetti, una forza morale grande…Ma penso che se domani non dovessi andare d’accordo con lui, mi taglierebbe la testa, se potesse, senza scrupoli. Per onestà.[2]

G. Prezzolini (a cura di), Gobetti e la Voce, Sansoni, 1971 p. 37

Risale a questo periodo la diceria di un Gobetti cripto-comunista, un comunista camuffato da liberale, nata in ambienti socialisti locali. Gramsci in diverse occasioni smentì questa diceria, in un occasione trascinato in una polemica personale, replicò seccamente:

E cosa c’entra il liberale Gobetti? Egli non è iscritto al Partito comunista, è un giovane che ha compreso la grandezza della Rivoluzione russa e dei capi che la guidano….Egli non ha responsabilità politiche all’Ordine nuovo[…][3]

A. Gramsci, Scritti 1915-1921, nuovi contributi, a cura di S. Caprioglio, i Quaderni del «Corpo», 1968, p. 160

Nello stesso articolo successivamente scrive:

Ci auguriamo che egli si persuada sempre più che se liberalismo significa incremento di capacità e della autonomia popolare, se il liberalismo significa incremento di capacità politica negli individui, oggi il liberalismo come concretezza storica, vive solo nel Comunismo internazionale[4]

A. Gramsci, Scritti 1915-1921, nuovi contributi, a cura di S. Caprioglio, i Quaderni del «Corpo», 1968, p. 160

La testimonianza di Barbara Allason

Questa idea quindi è stata smentita dallo stesso segretario del PCd’ I, la domanda rimane allora come si arrivati a questo binomio. Certamente il nome di Gramsci circolava durante il ventennio tra gli intellettuali torinesi e nei circoli de « La rivoluzione liberale» un esempio di questo accostamento tra Gramsci e Gobetti sin può trovare in Barbara Allason, in cui scrive:

In quel tempo si parlò molto del sodalizio Gramsci-Gobetti che fu criticato e incompreso e dai collaboratori del’Ordine nuovo e da quelli di Rivoluzione liberale. Io ne  chiesi una volta a Piero, ed egli mi disse: «Gramsci è una delle più limpide intelligenze  e dei più grandi caratteri che esistano oggi in Italia. Io ho molto appreso da lui».

B. Allason, Memorie di un’antifascista, Graphot, 2008,  p.21

Calosso e Vigolongo: La nascita del binnomio Gramsci-Gobetti

Umberto Calosso

Un ruolo certamente determinante nella costruzione di questo accostamento è sicuramente quello di intellettuali formatisi in zona di confine tra l’influenza gramsciana e  quella gobettiana come Andrea Vigolongo e Umberto Calosso.

Il primo dei due intellettuali citati Andrea Vigolongo, giovane socialista  era stato compagno di scuola di Gobetti e fu lui a presentare Gobetti e Gramsci. Nelle notarelle gobettiane, in cui la moglie Giovanna Viglongo, emerge in modo netto questo accostamento tra il giovane intellettuale liberale e  l’intellettuale comunista.

Un passaggio si ha con il secondo intellettuale citato,  Umberto Calosso  il 14 agosto 1933  scrive un articolo nel Quaderno n. 8 di Giustizia e Libertà su Gramsci  e l’ Ordine Nuovo in cui conclude il suo articolo con questa affermazione:

In un certo senso «Rivoluzione liberale» fu l’erede de «L’Ordine Nuovo» . E non ostante la morte immatura di Gobetti e l’agonia crudele di Gramsci, noi crediamo che questa eredità sia tuttora operante in noi, corretta delle sue negatività e integrata dall’esperienza animosa che è ogni giorno nuova e senza passato.

U. Calosso, Gramsci e L’Ordine Nuovo, in Quaderno n. 8 di Giustizia e libertà, agosto 1933 p. 79

Questi  giudizi su Gobetti hanno  portato nel secondo dopoguerra al successo del binomio tra il comunista e il liberale. Questo binomio  è stato oggetto  di numerosi studi che hanno  portato in alcuni i  casi  ad una mitizzazione di questo rapporto, volute in modo diretto o indiretto dal PCI.

Francesco Sunil Sbalchiero

Bibliografia

G. Viglongo, Notarelle gobettiane, Robin Edizioni

G. Scroccu, Piero Gobetti nella storia d’Italia. Una biografia politica e culturale, Le Monnier, 2022

P. Spriano, Intervista sulla storia del Pci, ( a cura di) S. Colarizi, Laterza, 19179

C. Pianciola, Piero Gobetti. Una passione libertaria, editrice Il Punto, 1998

Gobetti, Ruffini e il libro Diritti di libertà

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Pubblico questo articolo su Gobetti e Ruffini che era stato pubblicato sul sito Eventi Dimenticati.

Gobetti in uno dei suoi ultimi scritti, il 23 gennaio 1926 per la rivista settimanale Conscientia di Gangale, definì Francesco Ruffini come uno dei «tre uomini europei» della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Gli altri due secondo il giovane intellettuale torinese erano Einaudi e Mosca. Gobetti frequentò il  suo corso e sostenne l’esame finale,  ma la collaborazione tra i due iniziò solamente alcuni anni più  tardi.

Con Francesco Ruffini non si incrinarono i rapporti,  dopo l’avvento del fascismo come con altri intellettuali riferimenti culturali di Gobetti; fu proprio in quegli anni che iniziò tra di loro la collaborazione.

Le prime collaborazioni con Francesco Ruffini

Una prima collaborazione tra i due avvenne – secondo il ricordo  di Barbara Allason – in occasione di un incontro del ciclo di conferenze sull’attualità politica organizzato da Gobetti  nel 1923 alla Mole Antonelliana.

Successivamente il nome di Francesco Ruffini apparve in un articolo su «Rivoluzione Liberale» dal titolo Le origini della proporzionale scritto in occasione dell’approvazione, nei primi mesi del 1925, della riforma elettorale voluta dal fascismo che introduceva il sistema uninominale maggioritario.

 L’articolo di Ruffini venne pubblicato all’interno nel numero di febbraio della rivista di Gobetti dedicato alla commemorazione della proporzionale, in  cui vennero pubblicati articoli anche di Sturzo, Salvemini,  Ansaldo,  Morra di Lavriano e Dorso.

Nel suo articolo Ruffini ribadì gli argomenti liberali a sostegno della legge elettorale proporzionale, da lui già sostenuti nel libro Guerre e riforme costituzionali. In particolare, nell’articolo si sosteneva la capacità della proporzionale di garantire nella fase d’ingresso della masse in politica, la rappresentanza delle élite della società.

Gobetti e la scelta di pubblicare il libro Diritti di Libertà

Nel 1925 Gobetti scelse di pubblicare alcune opere di letteratura come L’antologia dei poeti catalani contemporane (1845-1925)  curata da Cesare Giardini  e l’Antologia della  lirica tedesca contemporanea curata da Elio Gianturco. 

Con questi due libri Gobetti stava preparando una situazione favorevole per il successo dei suoi libri all’estero –  l’ondata repressiva del fascismo si stava riflettendo sul mercato produttivo e distributivo sulle espressioni culturali di opposizione.

Scelse, per questa ragione, di pubblicare due ultimi testi politici di queste edizioni, ovvero La Libertà di Francesco Saverio Nitti e i Diritti di libertà di Francesco Ruffini. La proposta di Gobetti  al giurista sulla preparazione del volume avvenne probabilmente nel marzo- aprile del 1925 e il volume fu concluso in autunno.

Francesco Ruffini e il libro Diritti di libertà

Diritti di libertà fu pubblicato nel 1926, ma nelle librerie divenne subito  introvabile e circolò solamente in modo clandestino. Il libro non poté essere segnalo da Rivoluzione Liberale in quanto  aveva già cessato le sue pubblicazioni. Venne quindi segnalato sul Baretti nel dicembre 1925 come «saggio completamente inedito sulle costituzioni contemporanee».

Il volume raccoglie  molte delle idee e delle critiche contro il fascismo fatte da Francesco Ruffini al Senato, in particolare nella seduta del 19 novembre e dei discorsi del 15 e 19 dicembre che hanno ricevuto delle repliche anche da Mussolini.

Un capitolo del volume fu utilizzato da Francesco Ruffini anche per un articolo destinato al Corriere della Sera intitolato Nuove e vecchie Costituzioni, ma l’edizione contenente l’articolo fu sequestrata. Quello fu anche l’ultimo articolo del giurista che infatti cessò la sua collaborazione con il Corriere della Sera come Einaudi e Sforza dopo l’estromissione di Albertini dalla direzione del Giornale.

La parte di una trilogia

Il libro Diritti di liberà non va considerato  solamente come l’espressione organica dell’impegno politico dell’autore, ma come il proseguo di una trilogia scritta dal giurista iniziata con La libertà religiosa, in seguito con Storia dell’idea – pubblicato nel 1901 – e  proseguita successivamente con Corso sulla libertà religiosa come diritti pubblico  uscito in volume nel 1924. Queste due opere rielaborano delle idee di fondo che con il libro pubblicato per la casa editrice di Gobetti trovarono la loro applicazione nella complessiva teoria della costituzione e dello Stato.

Ruffini, in questa opera, prende una netta posizione sui caratteri stessi dell’origine del Regno d’Italia e l’innovazione avvenuta attraverso i diversi plebisciti dello Statuto Albertino.

Inoltre Ruffini  cercò di contrastare la rimozione che la cultura giuridica stava operando contro ogni voce non allineata con estremismo statalista di origine germanica,  sostenuto anche dal fascismo, ma che era già stato adottato  precedentemente nel periodo precedente al fascismo.

La circolazione sotterranea lo rese uno dei testi  alla base dell’educazione antifascista per i giovani che cercarono sfuggire all’indottrinamento del regime, anche se nel secondo dopoguerra i concetti espressi erano ormai superati.

Bibliografia:

P. Bagnoli, Piero Calamandrei. L’uomo del ponte,  Fuori onda, Firenze, 2012

N. Bobbio,  Trent’anni di storia della  cultura a Torino (1920-1950), CRT, Torino, 1977

N. Bobbio, L’ombra di Francesco Ruffini, in Nuova Antologia , 2157, Gennaio-marzo, Le Monnier, Firenze, 1986

M. A. Frabotta, Gobetti. L’editore giovane, Il Mulino , Bologna, 1988.

A. Fragioni, Francesco Ruffini. Una biografia intellettuale,  Il Mulino, Bologna, 2017

F. Ruffini, Diritti di libertà, (Postfazione di) M. Dogliani, Edizioni di Storia e Letteratura,

Articoli su Gobetti:

Piero Gobetti, l’editore come un creatore

Gobetti e il giudizio sul Partito popolare

Francesco Sunil Sbalchiero

Enrico Berlinguer: intervista a Guido Liguori

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Oggi ricorre il centenario della nascita di Enrico Berlinguer e pubblico nuovamente l’intervista che avevo fatto al professor Guido Liguori sull’argomento in occasione del centenario del Pci.

Guido Liguori insegna Storia del pensiero politico contemporaneo, è presidente della International Gramsci Society Italia e capo-redattore della rivista di cultura politica “Critica Marxista”. I suoi interessi riguardano la storia del marxismo, il pensiero socialista, il pensiero politico italiano del Novecento, il pensiero di Gramsci e la sua diffusione nel mondo.

le sue pubblicazioni più recenti sono La morte del Pci (Manifestolibri 2009, tradotto in Francia); Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012 (Editori Riuniti 20122); Berlinguer rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico (Carocci 2014)

In quale ambiente si formò Enrico Berliguer? E quali furono i suoi punti di riferimento culturali e politici?

Enrico Berlinguer si formò in una facoltosa famiglia sassarese di forte orientamento democratico e anti-fascista. Il padre Mario, un avvocato, era stato un deputato del centro democratico prima dell’affermazione del fascismo, e sarà poi sottosegretario e deputato, prima azionista e poi socialista, dopo la sua caduta. Il giovane Enrico venne in contatto, negli anni tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, di un gruppo di proletari comunisti ed entrò così nel Pci. Lettore e poi studioso dei testi marxisti, presenti anche nella biblioteca paterna, guidò i giovani comunisti sassaresi nel periodo di trapasso dal fascismo alla prima fase della democrazia, sotto l’arcigno controllo degli Alleati. Finì anche in carcere, in seguito ai “moti per il pane” di Sassari, nel gennaio 1944.

Quali furono i primi suoi incarichi nel partito? Quali furono le sue posizioni verso l’URSS durante la segreteria di Togliatti?

Grazie al padre, Berlinguer conobbe Togliatti già nel 1944, appena liberato, e inizia a lavorare per il Pci a tempo pieno. Fu a Milano e a Roma, guidò ben presto il Fronte della Gioventù (organizzazione che riuniva tutti i giovani dei partiti antifascisti, del CNL) e poi la Federazione giovanile comunista italiana, e per questo fu anche membro della Direzione del Pci, il massimo organo politico del Partito. Berlinguer guidò anche, a inizio anni Cinquanta, la Federazione mondiale che riuniva tutti i movimenti giovanili comunisti del mondo, e per questo passava una settimana al mese a Budapest, dove gli uffici centrali di questo vastissimo movimento avevano sede.

Fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta Berlinguer fu certamente partecipe del mito dell’Unione Sovietica e di Stalin, che avevano corso in tutto il mondo, e non solo tra i comunisti: erano stati tra i principali artefici della sconfitta del nazifascismo.

Nel 1956, tuttavia, Berlinguer, ancora molto giovane, fu l’unico dirigente del vertice del Pci a prendere timidamente le difese di Giuseppe Di Vittorio, segretario della CGIL, messo sotto accusa per aver espresso dissenso verso l’invasione dell’Ungheria perpetrata dagli eserciti del Patto di Varsavia e dell’Urss. Per questo per qualche mese, probabilmente, fu mandato a svolgere incarichi non di primissimo piano (alla Scuola di partito di Frattocchie e poi in Sardegna) ma fu ben presto venne richiamato a Roma per lavorare a stretto contatto con Togliatti e Longo, che ne avevano grandissima stima.

In quale situazione era il Pci, quando Berlinguer divenne segretario? Quali furono le principali differenze rispetto al periodo precedente?

Dopo l’XI Congresso del PCI (1966), il primo dopo la morte di Togliatti, vinto dalla “destra” interna, amendoliana, contro la sinistra di Ingrao, Berlinguer fu accusato di non essersi schierato risolutamente contro la “sinistra”, anzi di aver cercato le vie di una conciliazione. Segretario in pectore uscì da questo congresso Giorgio Napolitano, delfino di Amendola, il solo col Segretario Luigi Longo a far parte di tutti gli organismi di vertice del Pci.

Dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia (1968), per stroncare un tentativo di “comunismo democratico” iniziato dal segretario del Partito comunista di quel paese, Dubcek, fortemente appoggiato da Longo, Berlinguer emerse nel vertice del Pci come il più risoluto critico dell’invasione di Praga e dell’Unione Sovietica. Anche per questo fu scelto da Longo (colpito da un ictus) come Vice-Segretario (1969) e Segretario in pectore. Divenne infatti Segretario nel XIII Congresso del 1972.

Quale fu il rapporto con le due figure importanti nel partito come Pietro Ingrao e Giorgio Amendola?

Come ho scritto sopra, Berlinguer fu prima accusato di essere troppo “tenero” con le posizioni di Ingrao. Divenuto Segretario anche con il placet di Amendola, fu condizionato dall’ala amendoliana, soprattutto negli anni della politica del “compromesso storico”. Stabilì invece un nuovo, forte asse con Ingrao dopo il 1978, quando superò la politica della “solidarietà nazionale” e iniziò la stagione del “secondo Berlinguer”: anni caratterizzati da un tentativo di vera e propria rifondazione del Pci.

Dal rinnovato appoggio alle lotte operaie al discorso sulla “austerità (già nel 1977, discorso allora frainteso, ma vera e propria anticipazione delle successive critiche alla “crescita” illimitata dei paesi capitalistici occidentali a scapito del Terzo mondo), dalla celebre “questione morale”, ancora molto attuale, alle tesi sul rinnovamento della politica (che doveva essere più attenta alla società e ai movimenti), dal forte dialogo col femminismo all’appoggio al movimento per la pace, al dialogo con gli ecologisti, all’attenzione verso l’informatica, allora agli esordi: gli anni 1979-1984 sono un vero inizio di fondazione di un nuovo “partito nuovo” (come Togliatti aveva chiamato il suo partito, democratico e di massa, negli anni della democrazia post-fascista), di un Partito comunista fortemente rinnovato, vicino per molti versi alle tesi della “sinistra interna” di Ingrao.

Purtroppo Berlinguer morì improvvisamente nel giugno 1984 e la “rifondazione” del Pci da lui iniziata non fu continuata dai suoi successori. Molta parte del gruppo dirigente comunista aveva del resto manifestato la propria ostilità alle idee del “secondo Berlinguer”.

In che contesto Berlinguer iniziò a pensare al compromesso storico? Come venne accolta questa iniziativa di Berlinguer e del Pci dall’URSS?

La proposta del compromesso storico venne lanciata, come è noto, all’indomani del sanguinoso golpe, voluto dagli Stati Uniti, contro il Presidente socialista del Cile, Salvador Allende, a opera dell’esercito guidato dal generale Pinochet. Berlinguer si pose il problema di costruire uno schieramento progressista ampio, che evitasse il pericolo di un rigurgito reazionario e golpista, reale in Italia (basti pensare alla “strategia della tensione” e al golpe Borghese del 1970). Tale schieramento non poteva che comprendere “i cattolici”, da tutti assimilati alla Dc.

In realtà la strategia di un nuovo accordo coi cattolici era già in fase di gestazione ai vertici del Pci, sotto la spinta della destra amendoliana, come dimostra un numero speciale del «Contemporaneo» di «Rinascita» del giugno 1973, dedicato alla «questione democristiana». Si trattava di un ritorno alla classica politica di Togliatti, che nel dopoguerra aveva individuato nei cattolici non solo una componente essenziale della società italiana, ma anche nella Dc un possibile partner di governo. La guerra fredda aveva fatto naufragare il progetto. Riproporlo negli anni Settanta si trovò di fronte ancora una volta alla ferma ostilità degli Stati Uniti. Inoltre la Dc non era più solo e tanto il “partito cattolico”, quanto era divenuto il partito della borghesia italiana, il referente dell’industria pubblica e privata. Impossibilitata da tutti questi fattori a un vero e leale “dialogo” col Pci.

All’Urss non credo dispiacesse o desse fastidio il “compromesso storico”: Ciò che l’Urss non sopportava era il tentativo di creare un movimento comunista democratico a livello internazionale. Questa politica di Berlinguer prese prima il nome di “eurocomunismo”, poi di “terza via” o “terza fase”. Berlinguer era anche convinto che nel 1973 i sovietici avessero cercato di ucciderlo, tramite uno strano incidente stradale accaduto a Sofia, in Bulgaria, nel settembre. L’interprete seduto accanto a Berlinguer nell’auto travolta da un camion militare ci rimise la vita. Il sospetto di Berlinguer è plausibile: come dimostra l’invasione di Praga nel 1968 e il golpe in Cile nel 1972, Unione Sovietica e Stati Uniti si consideravano i gendarmi del mondo, i signori assoluti delle rispettive sfere di influenza, e mal sopportavano chi come Berlinguer (o anche Aldo Moro) tentava, prudentemente, di far saltare lo schema del mondo “diviso in due”. Quando l’URSS dimostrò, invadendo l’Afghanistan e provocando un “golpe” in Polonia, di voler proseguire su questa strada, Berlinguer – pur continuando sempre a professarsi comunista e respingendo al mittente ogni invito a farsi “socialdemocratico” – affermò che la «spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre» era ormai finita. Si doveva aprire una nuova fase, una terza fase (dopo quelle della Seconda e della terza Internazionale) di lotta per il socialismo, democratica, partecipata, non autoritaria. Un socialismo del “XXI secolo”, si sarebbe detto qualche anno più tardi. La morte improvvisa del leader dei comunisti italiani gli impedì di dare il proprio apporto a questa ricerca, un apporto che sarebbe stato certo rilevante. E di cui anche oggi è importante tener conto per una prospettiva democratica di costruzione del socialismo.

Giorno del Ricordo: Intervista a Raoul Pupo

Raoul Pupo è uno storico italiano, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste, tra i massimi conoscitori dell’Esodo giuliano-dalmata e dei massacri delle foibe.

Quali sono secondo Lei le principali motivazioni per cui il giorno del Ricordo è ancora così divisivo?

Una sola: la politicizzazione. La legge istitutiva è stata a suo tempo approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento con un gesto denso di significato, perché ha voluto dire che le vittime delle tragedie del confine orientale non erano i caduti di una parte della nazione (fascisti, nazionalisti) ma di tutta la nazione. Poi, nel corso del tempo, ci sono stati vari tentativi di forzare questa grande e fondamentale acquisizione: abbiamo assistito e stiamo tuttora assistendo a vere e proprie campagne di “colonizzazione” del giorno del Ricordo da parte della destra italiana ed in particolare di alcune forze politiche, anche attraverso la diffusione di interpretazioni, dati e formule proprie della cultura nazionalista e che mai hanno avuto cittadinanza nella comunità degli storici. Contemporaneamente, alcuni nuclei di irriducibili zelatori della repubblica federativa jugoslava hanno continuato a riproporre invece quelle che erano state le tesi prima delle propaganda e poi della storiografia di regime della Jugoslavia comunista: le stragi delle foibe sono solo un’invenzione della propaganda fascista; c’è stata solo la giusta punizione di qualche criminale; tutti quelli che sono stati colpiti nel 1943 e nel 1945 dovevano essere colpevoli, altrimenti non li avrebbero presi; l’esodo è stata un’emigrazione verso il benessere capitalista oppure il frutto di un inganno del governo italiano, e così via. Beninteso, si tratta di frange assai circoscritte, collocate all’estrema sinistra, ma molto attive sul web.

Vero è, che talvolta i loro giudizi vengono espressi in modi anche assai irriguardosi per le memorie dolorose e questo ha suscitato comprensibile, grave disappunto fra parenti ed eredi delle vittime. Da qualche anno a questa parte però, ciò ha innescato una campagna allarmista da parte di alcune associazioni di profughi e delle forze politiche di destra, che ha finito per ingigantire un fenomeno in realtà marginale. Ma non basta. Sempre dalla medesima parte, si è diffusa nell’uso pubblico l’abitudine di tacciare di “negazionismo”, o almeno del suo cugino “riduzionismo”, qualsiasi intervento che metta in discussione la rispolverata vulgata nazionalista.

Rispunta dunque la logica maledetta dell’intolleranza, che tanto sembra piacere di questi tempi, specie a chi privilegia le logiche della pancia rispetto a quelle del cervello. Fortunatamente, tale deriva è stata contrastata da molte altre iniziative ben più attente al rigore storico ed interessate invece a costruire percorsi di pacificazione. È questo il caso, ad esempio, delle attività promosse dalla rete degli Istituti per la storia della resistenza, che ben prima dell’istituzione della giornata memoriale avevano mostrato grande sensibilità per la storia del confine orientale. Ma ciò che più conta, vi sono stati alcuni interventi riequilibratori dei vertici istituzionali, cioè dei presidenti della Repubblica, che si sono spesi oltre ogni speranza in una logica di riconciliazione fra i popoli e le loro memorie. Speriamo che vengano ascoltati.

In Italia si parla spesso di infoibati italiani trascurando il fatto che il fenomeno ha coinvolto anche sloveni e croati. Quali sono le motivazioni che portano a trascurare questi aspetti?

Principalmente la poca conoscenza, spesso alimentata anche dai media, che preferiscono le semplificazioni rispetto alla delineazione di un quadro più articolato: questo accade frequentemente, ma è più grave quando si parla di una regione di frontiera, dove si sovrappongono lingue, culture politiche, aspirazioni contrastanti, memorie divise, ma anche logiche diverse che governano gli accadimenti rispetto a quel che è avvenuto in Italia. Un esempio da manuale è quello delle stragi del 1945 – cioè le foibe – che rappresentano la coda più occidentale di un’enorme ondata di violenza politica che ha riguardato tutti i territori liberati dai tedeschi nel medesimo periodo da parte delle truppe jugoslave, e che ha condotto all’eliminazione fisica di tutti coloro che si erano compromessi con il potere tedesco (e prima italiano) o che comunque erano considerati pericolosamente ostili all’instaurazione del nuovo regime comunista. Stiamo parlando di molte decine di migliaia di persone, in un gigantesco bagno di sangue. Ovviamente, nei territori popolati da italiani le vittime furono quasi solo italiane, perché erano gli italiani ad essere legati al potere che si voleva distruggere ed anche perché fra loro – antifascisti non comunisti compresi – era diffusa la contrarietà all’annessione alla Jugoslavia di Tito.

Guardando quindi il fenomeno “dalla parte giusta”, da est verso ovest, in una prospettiva jugoslava piuttosto che italiana, questo diventa molto più comprensibile, il che non vuol dire affatto giustificabile, perché rientra sempre fra i casi di criminalità politica di massa.

Quali sono le caratteristiche che rendono particolare la foiba di Basovizza?

In primo luogo, non è una foiba, cioè un abisso naturale, ma un pozzo minerario; però questo è largamente irrilevante. In secondo luogo, si tratta della cavità in cui è stato probabilmente occultato il maggior numero di salme di italiani uccisi in entrambe le stagioni della violenza di massa, quella dell’autunno 1943 e quella della primavera 1945: l’ordine di grandezza dovrebbe essere di alcune centinaia di vittime. Peraltro – altro connotato essenziale – mentre le testimonianze sono cospicue, manca il corpo del delitto, perché i recuperi non sono mai stati possibili per ragioni tecniche. Comprensibilmente, ciò ha innescato per decenni polemiche a non finire, ancora non del tutto sopite.

A suscitarle ha poderosamente contribuito la geniale trovata comunicativa di un giornalista dell’epoca che, non sapendo che cosa scrivere, ipotizzò che nella cubatura di detriti che ingombra il pozzo potessero esser stati ammucchiati fino a 1.500 cadaveri. Rapidamente, nell’uso pubblico e politico, tale ipotesi si è trasformata nei 1.500 italiani infoibati a Basovizza, in alcuni casi poi lievitati per virtù propria fino a 2.000 0 2.500. È facile capire come tale disinvoltura abbia prestato il fianco a critiche feroci, che in molti casi si sono spinte oltre, cioè fino al punto di negare che qualcuno nella foiba sia stato effettivamente gettato.

Il cortocircuito fra storia e mito è stato poi alimentato dal fatto che, comunque siano andate le cose, il sito è divenuto il simbolo di tutte le violenze subite dagli italiani fra guerra e dopoguerra ed il luogo privilegiato delle cerimonie commemorative. A questo punto, il nodo è diventato gordiano, fino a che i presidenti delle repubbliche di Italia e Slovenia, nel luglio 2020, hanno deciso di tagliarlo con un gesto di pietà condivisa, che va oltre le memorie ed i giudizi storici.

Nel corso degli anni c’è stata molta confusione sul numero degli infoibati, secondo gli studi più recenti qual è il numero delle vittime?

Con certezza non si sa, perché lo stato delle fonti non lo consente. È possibile tuttavia farsi un’idea di quale sia l’ordine di grandezza complessivo delle vittime delle due ondate di violenza del 1943 e 1945, subito precisando che il termine “infoibati” rischia di depistare il lettore, perché molti degli uccisi trovarono la morte in altra maniera ed i loro corpi sono finiti chissà dove. Meglio quindi è parlare complessivamente degli “scomparsi”.

Per il 1943 tale ordine di grandezza è abbastanza facile da stabilire ed è di 500 vittime, concentrate nella provincia di Pola. Per il 1945 invece i calcoli sono complicatissimi. Ci aiuta una ricerca compiuta dall’Istat alla fine degli anni ’50, secondo la quale il numero delle vittime civili nelle sole province di Udine, Gorizia e Trieste ammonterebbe a 2.627. Ovviamente, le cifre finali possono ballare un po’ com’è inevitabile in questi casi, però è un buon inizio. A tale risultato – magari depurato da errori e doppioni – vanno sommati gli uccisi nelle province di Pola, Fiume e Zara. Per Fiume abbiamo una stima molto buona, frutto di un esemplare lavoro di collaborazione fra la Società di studi fiumani ed alcuni ricercatori croati, che fissa il totale dei caduti a circa 600. Nulla del genere, purtroppo, è stato fatto per l’Istria, ma per Pola e la parte meridionale della penisola una buona stima è di circa 800 persone, cui bisogna aggiungere gli scomparsi dal resto della provincia, comprese le zone interne a popolamento croato, dove pure vi furono delle vittime. Quanto a Zara, le violenze riguardarono solo l’aliquota residuale di popolazione rimasta in città dopo che la maggioranza era già sfollata in Italia a seguito dei bombardamenti aerei del 1943-44, che distrussero praticamente tutto il centro urbano. Le stime correnti parlano di più di 100 vittime.

Siamo arrivati dunque ad almeno 4.000 unità, alle quali vanno aggiunte le vittime militari. Qui però la situazione delle fonti è ancora peggiore, perché che la documentazione di cui disponiamo non distingue tra i vari flussi di prigionieri che si sono accavallati nel corso del tempo in mani jugoslave: quelli appunto fatti prigionieri nella Venezia Giulia a fine guerra; quelli – molto più numerosi – catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e successivamente divenuti prigionieri dell’armata popolare; ed infine quelli internati in Germania dopo l’armistizio, liberatisi nella primavera del 1945 e che hanno avuto la pessima idea di attraversare la Jugoslavia per cercare di tornare in Italia, con l’unico risultato di venir nuovamente arrestati e costretti a “collaborare” con il loro lavoro alla ricostruzione di quello Stato che avevano precedentemente distrutto. Ipotizzare, sulla base delle denunce di scomparsa – peraltro probabilmente parziali e non sempre attendibili – che fra le migliaia di catturati nella primavera del 1945 parecchie centinaia non siano tornati sembra ragionevole, ma oltre è davvero difficile andare.

Complessivamente quindi a che fare con un ordine di grandezza di alcune migliaia di vittime, sembrerebbe fra le quattro e le cinque. Di più, è francamente improbabile, a meno di non conteggiare – come fa disinvoltamente qualche elenco – anche i caduti in combattimento italiani contro i partigiani, magari anche nella Dalmazia annessa dopo il 1941, ovvero di dar per certi tutti i presunti il che, fortunatamente per loro, non è vero. Di meno, è possibile, come esito di un’accurata ripulitura degli elenchi da errori e doppioni, ma probabilmente non di molto.

Molto spesso c’è lo stereotipo diffuso di definire gli esuli come fascisti, da dove nasce questo stereotipo?

In primo luogo, naturalmente, dal fascismo stesso, che durante in Ventennio ha fatto tutto quel che poteva per convincere i cittadini della Venezia Giulia che Italia e fascismo erano la stessa cosa. Purtroppo ci è riuscito piuttosto bene, nel senso che per i partigiani sloveni e croati dire italiani o dire fascisti era equivalente. La situazione non cambiò molto nel dopoguerra nei territori sotto controllo jugoslavo. Qui i vertici del partito comunista usavano il termine “fascista” con un significato assai largo, ad esempio come sinonimo di “legato al potere italiano”, oppure di “ostile al movimento di liberazione”, ovvero anche di “contrario all’annessione alla Jugoslavia” e “avverso alla costruzione del socialismo”. Ricadere in tale categoria per gli italiani era quindi piuttosto facile: è vero che ai livelli decisionali superiore si faceva distinzione fra gli “italiani onesti e buoni” e i ”residui del fascismo”, ma i quadri locali, di estrazione partigiana, tendevano in genere a semplificare.

Ora, ufficialmente la politica del governo jugoslavo, concordata con il partito comunista italiano, era quella della “fratellanza italo-slava”, che prevedeva il mantenimento in Istria ed a Fiume di una minoranza italiana, tutelata per legge, anche se drasticamente ridimensionate rispetto all’anteguerra. In concreto, la “fratellanza” non funzionò, per i suoi stessi limiti (si trattava di una politica di integrazione selettiva a condizioni particolarmente pesanti), per le sue difficoltà di applicazione da parte dei dirigenti locali che non ci credevano e, da ultimo, perché la crisi del Cominform spiazzò completamente i comunisti italiani, gli unici ad aver cercato di integrarsi nel sistema jugoslavo.

Ma nel 1946 e 1947, quando in Italia cominciarono ad arrivare le prime ondate di profughi, fra Tito e Stalin non era ancora scoppiato il gelo e dunque, per il PCI, chi fuggiva dalla Jugoslavia socialista non poteva che essere un anticomunista, cioè un fascista. Da ciò episodi anche clamorosi di ostilità nei confronti dei profughi e la diffusione dello stereotipo, duro a morire, negli ambienti della sinistra.

Come è cambiata la memoria delle foibe dopo l’istituzione della giornata del Ricordo? C’è stata una maggiore attenzione anche degli storici?

Le memorie di frontiera naturalmente sono sempre le medesime, soggettive, divise e certo non interscambiabili, ma fortunatamente si parla sempre meno della necessità di una “memoria condivisa”, che è una contraddizione in termini rispetto alla soggettività dei ricordi, e sempre più di riconoscimento delle varie memorie e di reciproco rispetto. Fra le diverse memorie, quella che sino agli anni ’90 del ‘900 era più a rischio, era quella dell’esodo e, più in generale, della stessa esistenza storica delle comunità italiane in Istria e a Fiume. Oggi invece questa memoria è stata salvata, ha suscitato l’attenzione di studiosi e media ed in alcuni casi è stata anche monumentalizzata.

Se invece parliamo della conoscenza storica diffusa nel Paese, allora questa è certo aumentata, vuoi per le celebrazioni ufficiali, vuoi e soprattutto per l’intensissima attività didattica sviluppata da numerosi soggetti, istituzionali e privati. È tuttora molto polarizzata sulle foibe – dramma dal grande impatto emotivo e facilmente comunicabile – meno sull’esodo, che pur rappresenta un fenomeno di gran lunga più significativo e, addirittura, periodizzante. Ancora una volta, si tratta di uno squilibrio legato all’uso politico ed alla funzione selettiva ed amplificatrice dei mezzi di comunicazione.

La “riscoperta” della storia del confine orientale ha riguardato anche la storiografia, dapprima semplicemente con una maggior attenzione ai prodotti di chi già si occupava, prevalentemente in sede locale, di quelle vicende, poi anche con nuove ricerche. Avviene qui il rovescio di quanto accade nell’uso pubblico: in quello prevale l’attenzione per le foibe, sul piano degli studi invece per l’esodo. È logico che sia così. Le stragi del 1943 e del 1945 sono state un’esperienza drammatica e traumatica, ma circoscritta e spiegabile con una certa facilità: le fonti decisive sono note da un trentennio e per le indagini si tratta di una pista ormai fredda. L’esodo invece è stato un fenomeno assai più ampio ed articolato, snodatosi per più di un decennio e che ha coinvolto un’intera società locale ben articolata. Si tratta quindi di un campo di ricerca assai vasto non solo per la storia politica, ma anche per quella sociale e per l’antropologia, sia che si studi la fase distruttiva, cioè lo scompaginamento e sradicamento delle comunità italiane dalle loro sedi storiche d’insediamento, sia che si affrontino invece i temi della profuganza, dell’accoglienza e della ricostruzione delle esistenze individuali e comunitarie nella diaspora.

Fra le novità infine dell’ultimo ventennio, va segnalata la funzione importante di alcuni storici di frontiera di nuova generazione, talvolta residenti in Croazia, talaltra in Italia, ma portatori di doppia cittadinanza, di competenze linguistiche e di conoscenze storiografiche che consentono loro di muoversi agevolmente nei diversi contesti. È a loro, ad esempio, che dobbiamo gli studi più innovativi sulla realtà istriana del secondo dopoguerra, condotti sulle fonti ex jugoslave, che siamo ora finalmente in grado di incrociare con quelle italiane, in modo da consentire una visione a tutto tondo di vicende obiettivamente assai complesse.

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