Oggi ricorre il centenario della nascita di Enrico Berlinguer e pubblico nuovamente l’intervista che avevo fatto al professor Guido Liguori sull’argomento in occasione del centenario del Pci.

Guido Liguori insegna Storia del pensiero politico contemporaneo, è presidente della International Gramsci Society Italia e capo-redattore della rivista di cultura politica “Critica Marxista”. I suoi interessi riguardano la storia del marxismo, il pensiero socialista, il pensiero politico italiano del Novecento, il pensiero di Gramsci e la sua diffusione nel mondo.

le sue pubblicazioni più recenti sono La morte del Pci (Manifestolibri 2009, tradotto in Francia); Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012 (Editori Riuniti 20122); Berlinguer rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico (Carocci 2014)

In quale ambiente si formò Enrico Berliguer? E quali furono i suoi punti di riferimento culturali e politici?

Enrico Berlinguer si formò in una facoltosa famiglia sassarese di forte orientamento democratico e anti-fascista. Il padre Mario, un avvocato, era stato un deputato del centro democratico prima dell’affermazione del fascismo, e sarà poi sottosegretario e deputato, prima azionista e poi socialista, dopo la sua caduta. Il giovane Enrico venne in contatto, negli anni tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, di un gruppo di proletari comunisti ed entrò così nel Pci. Lettore e poi studioso dei testi marxisti, presenti anche nella biblioteca paterna, guidò i giovani comunisti sassaresi nel periodo di trapasso dal fascismo alla prima fase della democrazia, sotto l’arcigno controllo degli Alleati. Finì anche in carcere, in seguito ai “moti per il pane” di Sassari, nel gennaio 1944.

Quali furono i primi suoi incarichi nel partito? Quali furono le sue posizioni verso l’URSS durante la segreteria di Togliatti?

Grazie al padre, Berlinguer conobbe Togliatti già nel 1944, appena liberato, e inizia a lavorare per il Pci a tempo pieno. Fu a Milano e a Roma, guidò ben presto il Fronte della Gioventù (organizzazione che riuniva tutti i giovani dei partiti antifascisti, del CNL) e poi la Federazione giovanile comunista italiana, e per questo fu anche membro della Direzione del Pci, il massimo organo politico del Partito. Berlinguer guidò anche, a inizio anni Cinquanta, la Federazione mondiale che riuniva tutti i movimenti giovanili comunisti del mondo, e per questo passava una settimana al mese a Budapest, dove gli uffici centrali di questo vastissimo movimento avevano sede.

Fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta Berlinguer fu certamente partecipe del mito dell’Unione Sovietica e di Stalin, che avevano corso in tutto il mondo, e non solo tra i comunisti: erano stati tra i principali artefici della sconfitta del nazifascismo.

Nel 1956, tuttavia, Berlinguer, ancora molto giovane, fu l’unico dirigente del vertice del Pci a prendere timidamente le difese di Giuseppe Di Vittorio, segretario della CGIL, messo sotto accusa per aver espresso dissenso verso l’invasione dell’Ungheria perpetrata dagli eserciti del Patto di Varsavia e dell’Urss. Per questo per qualche mese, probabilmente, fu mandato a svolgere incarichi non di primissimo piano (alla Scuola di partito di Frattocchie e poi in Sardegna) ma fu ben presto venne richiamato a Roma per lavorare a stretto contatto con Togliatti e Longo, che ne avevano grandissima stima.

In quale situazione era il Pci, quando Berlinguer divenne segretario? Quali furono le principali differenze rispetto al periodo precedente?

Dopo l’XI Congresso del PCI (1966), il primo dopo la morte di Togliatti, vinto dalla “destra” interna, amendoliana, contro la sinistra di Ingrao, Berlinguer fu accusato di non essersi schierato risolutamente contro la “sinistra”, anzi di aver cercato le vie di una conciliazione. Segretario in pectore uscì da questo congresso Giorgio Napolitano, delfino di Amendola, il solo col Segretario Luigi Longo a far parte di tutti gli organismi di vertice del Pci.

Dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia (1968), per stroncare un tentativo di “comunismo democratico” iniziato dal segretario del Partito comunista di quel paese, Dubcek, fortemente appoggiato da Longo, Berlinguer emerse nel vertice del Pci come il più risoluto critico dell’invasione di Praga e dell’Unione Sovietica. Anche per questo fu scelto da Longo (colpito da un ictus) come Vice-Segretario (1969) e Segretario in pectore. Divenne infatti Segretario nel XIII Congresso del 1972.

Quale fu il rapporto con le due figure importanti nel partito come Pietro Ingrao e Giorgio Amendola?

Come ho scritto sopra, Berlinguer fu prima accusato di essere troppo “tenero” con le posizioni di Ingrao. Divenuto Segretario anche con il placet di Amendola, fu condizionato dall’ala amendoliana, soprattutto negli anni della politica del “compromesso storico”. Stabilì invece un nuovo, forte asse con Ingrao dopo il 1978, quando superò la politica della “solidarietà nazionale” e iniziò la stagione del “secondo Berlinguer”: anni caratterizzati da un tentativo di vera e propria rifondazione del Pci.

Dal rinnovato appoggio alle lotte operaie al discorso sulla “austerità (già nel 1977, discorso allora frainteso, ma vera e propria anticipazione delle successive critiche alla “crescita” illimitata dei paesi capitalistici occidentali a scapito del Terzo mondo), dalla celebre “questione morale”, ancora molto attuale, alle tesi sul rinnovamento della politica (che doveva essere più attenta alla società e ai movimenti), dal forte dialogo col femminismo all’appoggio al movimento per la pace, al dialogo con gli ecologisti, all’attenzione verso l’informatica, allora agli esordi: gli anni 1979-1984 sono un vero inizio di fondazione di un nuovo “partito nuovo” (come Togliatti aveva chiamato il suo partito, democratico e di massa, negli anni della democrazia post-fascista), di un Partito comunista fortemente rinnovato, vicino per molti versi alle tesi della “sinistra interna” di Ingrao.

Purtroppo Berlinguer morì improvvisamente nel giugno 1984 e la “rifondazione” del Pci da lui iniziata non fu continuata dai suoi successori. Molta parte del gruppo dirigente comunista aveva del resto manifestato la propria ostilità alle idee del “secondo Berlinguer”.

In che contesto Berlinguer iniziò a pensare al compromesso storico? Come venne accolta questa iniziativa di Berlinguer e del Pci dall’URSS?

La proposta del compromesso storico venne lanciata, come è noto, all’indomani del sanguinoso golpe, voluto dagli Stati Uniti, contro il Presidente socialista del Cile, Salvador Allende, a opera dell’esercito guidato dal generale Pinochet. Berlinguer si pose il problema di costruire uno schieramento progressista ampio, che evitasse il pericolo di un rigurgito reazionario e golpista, reale in Italia (basti pensare alla “strategia della tensione” e al golpe Borghese del 1970). Tale schieramento non poteva che comprendere “i cattolici”, da tutti assimilati alla Dc.

In realtà la strategia di un nuovo accordo coi cattolici era già in fase di gestazione ai vertici del Pci, sotto la spinta della destra amendoliana, come dimostra un numero speciale del «Contemporaneo» di «Rinascita» del giugno 1973, dedicato alla «questione democristiana». Si trattava di un ritorno alla classica politica di Togliatti, che nel dopoguerra aveva individuato nei cattolici non solo una componente essenziale della società italiana, ma anche nella Dc un possibile partner di governo. La guerra fredda aveva fatto naufragare il progetto. Riproporlo negli anni Settanta si trovò di fronte ancora una volta alla ferma ostilità degli Stati Uniti. Inoltre la Dc non era più solo e tanto il “partito cattolico”, quanto era divenuto il partito della borghesia italiana, il referente dell’industria pubblica e privata. Impossibilitata da tutti questi fattori a un vero e leale “dialogo” col Pci.

All’Urss non credo dispiacesse o desse fastidio il “compromesso storico”: Ciò che l’Urss non sopportava era il tentativo di creare un movimento comunista democratico a livello internazionale. Questa politica di Berlinguer prese prima il nome di “eurocomunismo”, poi di “terza via” o “terza fase”. Berlinguer era anche convinto che nel 1973 i sovietici avessero cercato di ucciderlo, tramite uno strano incidente stradale accaduto a Sofia, in Bulgaria, nel settembre. L’interprete seduto accanto a Berlinguer nell’auto travolta da un camion militare ci rimise la vita. Il sospetto di Berlinguer è plausibile: come dimostra l’invasione di Praga nel 1968 e il golpe in Cile nel 1972, Unione Sovietica e Stati Uniti si consideravano i gendarmi del mondo, i signori assoluti delle rispettive sfere di influenza, e mal sopportavano chi come Berlinguer (o anche Aldo Moro) tentava, prudentemente, di far saltare lo schema del mondo “diviso in due”. Quando l’URSS dimostrò, invadendo l’Afghanistan e provocando un “golpe” in Polonia, di voler proseguire su questa strada, Berlinguer – pur continuando sempre a professarsi comunista e respingendo al mittente ogni invito a farsi “socialdemocratico” – affermò che la «spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre» era ormai finita. Si doveva aprire una nuova fase, una terza fase (dopo quelle della Seconda e della terza Internazionale) di lotta per il socialismo, democratica, partecipata, non autoritaria. Un socialismo del “XXI secolo”, si sarebbe detto qualche anno più tardi. La morte improvvisa del leader dei comunisti italiani gli impedì di dare il proprio apporto a questa ricerca, un apporto che sarebbe stato certo rilevante. E di cui anche oggi è importante tener conto per una prospettiva democratica di costruzione del socialismo.