Autore: storiapolitica

Un’altra patria. Intervista a Marco Labbate

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Marco Labbate ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi umanistici all’Università di Urbino e collabora con il Centro studi Sereno Regis. Tra le sue più recenti pubblicazioni vorrei ricordare Fonderia Montecatini . Storia di una fabbrica pesarese (Futura, 2021),  un saggio all’interno del libro curato da Cesare Panizza e Silvia Cecchi Indagare l’Italia repubblicana. Momenti di una storia lunga 75 anni 1946-2021 (Aras, 2021) e il libro di cui parleremo oggi Un’altra patria. L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana.( Pacini editore, 2020)

Il tema della pace fu molto sentito nel dibattito dell’immediato secondo dopoguerra.  Questa sensibilità dopo due guerre mondiali portò ad una discussione nell’Assemblea  costituente anche del tema dell’obiezione di coscienza come alternativa al servizio militare? Quali culture politiche cercarono di portare l’attenzione su questo tema?

Si tratta di una discussione a mio avviso stupefacente. Pensi che all’epoca non ci sono obiettori, a parte lo sconosciuto pentecostale Rodrigo Castiello, né movimenti pacifisti consolidati. A chiedere il riconoscimento dell’obiezione di coscienza c’era solo l’ex-sacerdote modernista Giovanni Pioli e un Movimento per la riforma religiosa, appena costituito da Capitini. A raccogliere questi appelli e a portarli nell’Assemblea costituente nel maggio 1947 è il Partito socialista dei lavoratori italiani, staccatosi dalla casa madre con la scissione di Palazzo Barberini. Nelle persone di Arrigo Cairo, Umberto Calosso ed Ernesto Caporali cerca di far approvare in Costituzione un superamento del servizio militare obbligatorio e una riduzione delle spese militari. Riprendere in mano la tradizione antimilitarista del socialismo serve alla nuova formazione per marcare la distanza dal Partito socialista di Nenni. Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza viene introdotto da Caporali, in un emendamento a quello che sarebbe diventato l’articolo 52. Il suo intervento merita di essere riletto, per la sorprendente modernità: propone una visione larga di difesa della patria, che va oltre il mero aspetto militare. La questione rimane marginale ed è comprensibile: anche Caporali rivolge lo sguardo all’orizzonte inglese, proponendo una norma del futuro, per il momento quasi senza riscontri in Italia. Non vi erano spazi per questa proposta, in un quadro politico che la guerra fredda andava radicalizzando.

Il primo obiettore di coscienza  in Italia fu Pietro Pinna, che durante il processo venne difeso dall’avvocato torinese Bruno Segre, come venne vista questa vicenda nel dibattito pubblico?

Il caso Pinna rappresenta il passaggio dell’obiezione di coscienza, da momento privato, interamente risolto nel foro interiore e nel chiuso di un tribunale militare, ad atto pubblico. L’immagine di Pinna, nella sua irremovibile semplicità è potente. La stampa si interessa al suo caso inusuale: un ragazzo comune che compie un gesto così dirompente. Il conflitto sofocleo che si svolge nel tribunale militare di Torino tra l’autorità e l’obiettore viene raccontato diffusamente sui quotidiani e persino su rotocalchi nazional-popolari o su fogli sensazionalistici, come «Crimen». Il Paese si appassiona così alla sorte di questo ragazzo e prende posizione. Ma la forza della figura di Pinna da sola non sarebbe bastata: le autorità militari non avevano alcuna intenzione di farne un caso nazionale. Se questo accade è anche perché attorno a Capitini si raccoglie un movimento che divulga le notizie, coinvolge giornalisti e parlamentari. Oltre al già citato Giovanni Pioli vi sono altre importanti figure che sostengono l’obiettore: lo jesino Edmondo Marcucci, il poeta Guido Ceronetti (è un aspetto poco noto della sua storia), Umberto Calosso, che porta la questione di Pinna in Parlamento e assieme al cattolico Igino Giordani presenta la prima proposta di legge per riconoscere l’obiezione di coscienza, e, appunto, Bruno Segre. Non è solo è l’avvocato che difende Pinna e “inventa” lo schema difensivo per un reato non contemplato da nessun codice. Il mensile «L’Incontro», di cui è il direttore, diventa una voce assidua nel panorama dell’obiezione in Italia.

Il rifiuto di Pietro Pinna, fu anche influenzato dal filosofo Aldo Capitini. Quali furono altri intellettuali che intervennero su questo tema ? il filosofo politico torinese Norberto Bobbio intervenne su questo tema ?

 La relazione tra obiezione di coscienza e mondo intellettuale è presente fin dalle origini. L’obiezione di coscienza sorge come istanza morale e filosofica in un gruppo di intellettuali, che per ragioni di età, non possono fare obiezione. Al tempo stesso le frequenti censure che coinvolgono l’obiezione la legano alla libertà d’espressione, particolarmente cara agli intellettuali. Fin dall’inizio sostengono il suo riconoscimento figure di primo piano come Arturo Carlo Jemolo. I legami tra obiezione di coscienza e mondo intellettuale procedono a tratti, rafforzandosi quando appunto l’obiezione di coscienza entra in collisione con la limitazione delle libertà. L’Associazione per la libertà della cultura, che raccoglie personalità di rilievo come Guido Calogero, Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, dedica le dedica due importanti pubblicazioni nel 1962, dopo la censura del film di Autant Lara, Non uccidere. I manifesti contro le incriminazioni di Balducci o don Milani assomigliano a un elenco degli esponenti della cultura italiana di quegli anni. E ancora nel 1972 il digiuno di Pannella per il riconoscimento dell’obiezione ottiene il sostegno di un parterre internazionale di scrittori e intellettuali, tra cui tre premi Nobel. In Parlamento tra i protagonisti nel dibattito sulla legge si segnala per gli interventi di altissima levatura Franco Antonicelli. Quanto a Bobbio non assume un ruolo di primo piano, ma il suo contributo al dibattito attorno al film di Autant Lara, ha una valenza non trascurabile. Interviene alla Gam di Torino, in un’iniziativa organizzata dall’Unione culturale alla quale partecipano anche Bianca Guidetti Serra e Franco Antonicelli. Ci rimane solo la sua relazione, pubblicata nella raccolta di saggi Il Terzo assente. Secondo me si tratta tuttavia di un intervento fondamentale per la lucida chiarezza con cui affronta il tema. Evidenza i motivi su cui tradizionalmente si basava la giustificazione della guerra e ne dichiara il superamento di fronte alla novità rappresentata dall’era atomica che può portare all’annientamento della vita sulla terra: «Se interroghiamo la nostra coscienza» conclude «non possiamo più rifiutarci di riconoscere che oggi siamo, almeno in potenza, tutti quanti obiettori».

Nel suo libro fa molto riferimento al mondo cattolico, il tema della pace venne trattato per la prima volta in modo nuovo all’interno della Chiesa con l’enciclica di Giovanni  XXIII e poi ci fu il Concilio Vaticano II. Quali cambiamenti portò nel modo di affrontare il tema dell’obiezione di coscienza nel mondo cattolico ?

 Nella Pacem in terris l’obiezione di coscienza non viene trattata, ma l’impalcatura teologica dell’enciclica archivia la secolare dottrina della guerra giusta e del principio di presunzione, ovvero della competenza del giudizio sulla giustizia di una guerra alla sola autorità politica. Assieme alla nonviolenza, l’obiezione è tra i temi lasciati in eredità al Concilio Vaticano II. Nella Gaudium et spes riceve un riconoscimento molto parziale. Si tratta di una formula di compromesso tra il clero conservatore, che fino all’ultimo tenta di affossare anche questo statuto dimezzato, e quello progressista che chiede maggiore coraggio. Ma è comunque una prima breccia dall’effetto rivoluzionario. Se fino a quel momento, anche nei tribunali militari, si condannava l’obiezione di coscienza come incompatibile col punto di vista cattolico (i giudici teologi non erano figure rare!), ora non è più possibile. Non solo. Questa fessura si allarga rapidamente. Diversi alti prelati e vescovi prendono subito una posizione più avanzata che, alla luce della Gaudium et spes, è legittimata. Nella Popolarum progressio Paolo VI si spinge un poco oltre. Nel 1968 un organismo ufficiale, la Commissione pontificia Justitia et pax invita le comunità parrocchiali a dare il proprio sostegno agli obiettori. Nel 1971 il Sinodo della Conferenza episcopale avrebbe affermato di voler favorire la strategia della nonviolenza e chiesto di regolare mediante le leggi l’obiezione di coscienza.

Quale fu  invece la posizione sull’obiezione di coscienza del Pci, e vi fu una differenza di posizioni  successivamente con altri movimenti  di sinistra?

La posizione del Pci rispetto all’obiezione di coscienza è sostanzialmente di estraneità: l’obiezione di coscienza non è compatibile con la dottrina marxista-leninista, che riconosce la necessità storica della violenza rivoluzionaria, né con la sua storia resistenziale, né con l’approccio politico, che vede nella partecipazione del militante al servizio militare un dovere, ma anche un’opportunità di propaganda. Vi è poi una necessità del partito nuovo di Togliatti di essere rassicurante per i ceti moderati di cui intende intercettare il consenso. L’obiezione di coscienza non è dunque moneta di pregio, un comportamento individualista e borghese, al quale rivolge un’inscalfibile indifferenza. Nella pratica tuttavia il Pci porta avanti mobilitazioni di massa, affini all’obiezione di coscienza, come il rifiuto dei portuali di scaricare armi americane dopo la firma del Patto Atlantico o la distruzione pubblica delle «cartoline rosa» inviate dal ministero della Difesa ai congedati, per avvisarli di un possibile richiamo alle armi. Negli anni Sessanta la posizione del Pci si sfuma. Diventa più attento al dissenso cattolico e dunque anche all’obiezione di coscienza. Tuttavia la sua linea rimane quella del distacco. Le promesse di un’iniziativa parlamentare sul tema rimangono senza seguito. I giornali comunisti accendono l’attenzione sull’obiezione di coscienza soprattutto quando suscita contraddizioni nel campo cattolico. Non è un caso che a divulgare la Lettera ai cappellani di don Milani siano in prima battuta «l’Unità» e poi «Rinascita», imputata assieme al priore (compagnia poco gradita dal priore che non riteneva che una rivista comunista potesse fregiarsi di una battaglia per la libertà di coscienza). La freddezza tra Pci e obiezione di coscienza perdura anche al momento dell’approvazione della legge. Il Pci elabora una propria linea, intermedia tra quella restrittiva sostenuta dal governo, e le aperture presenti nella proposta socialista di Cipellini, ma sostanzialmente estranea al sentire degli obiettori. E almeno fino alla fine degli anni Settanta, quando l’Arci scende in campo su questo fronte, il Pci mantiene un certo distacco nei confronti del nuovo servizio civile.

Nel suo libro tratta anche di alcuni protagonisti ai margini come i testimoni di Geova e  la Chiesa valdese  che ruolo hanno avuto?

Si tratta di situazioni molto diverse. I testimoni di Geova sono poco inclini a dare risalto al loro gesto. Rifiutano in molti casi l’idea di un servizio civile e talvolta anche la stessa qualifica di obiettori. Chiedono infatti di essere esentati dal servizio militare come ministri di culto. Tuttavia la loro stessa presenza permette di mantenere viva l’istanza lungo tutta la storia repubblicana, anche quando dopo i casi di Pinna, Santi e degli anarchici Ferrua e Barbani, l’obiezione cade nel dimenticatoio. Pensiamo a questo unico dato: di 706 obiettori che si contano tra 1945 e 1972, 622 sono testimoni di Geova. La Chiesa valdese è invece una presenza attiva nel chiedere un riconoscimento dell’obiezione. È la prima chiesa italiana a prendere una posizione favorevole con il suo massimo organo, fin dalla fine degli anni Cinquanta. È l’esito di un dibattito interno cominciato ancor prima del caso di Pinna. Negli anni Sessanta la Chiesa valdese partecipa a iniziative, raccolte firme, petizioni anche a sostegno dei sacerdoti cattolici coinvolti nei processi, come padre Balducci o don Milani. Tuttavia non abbiamo obiettori valdesi almeno fino alla fine degli anni Sessanta, quando le componenti antimilitariste della contestazione irrompono anche nelle chiese. Mentre nel cattolicesimo i due percorsi paralleli, nella Chiesa valdese l’adesione personale all’obiezione di coscienza giunge con la sua politicizzazione, molti anni dopo rispetto all’impegno ideale per un suo riconoscimento.

L’obiezione di coscienza al servizio militare venne riconosciuta con la legge n. 772 del 1972 proposta dal deputato della sinistra Dc Giovanni  Marcora, in un fase politica dopo il sessantotto in cui vennero affermati molti diritti. Con questa legge, infatti  venne istituito anche il Servizio civile per gli obiettori coscienza come alternativa al servizio militare. Come il contesto politico e sociale influenzò il dibattito su questa legge ?

 La mobilitazione attorno all’obiezione di coscienza è fortemente influenzata dal Sessantotto. La contestazione dell’autorità che coinvolge scuola, fabbrica e famiglia non lascia immune l’esercito. Da poche decine di partecipanti le manifestazioni per l’obiezione coinvolgono centinaia, a volte migliaia di persone. Decisivo è l’apporto del Partito radicale che rispetto ai precedenti movimenti riesce a mobilitare masse consistenti, ben superiori al novero degli iscritti. Muta inoltre il linguaggio con cui i movimenti e gli obiettori parlano dell’obiezione di coscienza a cui ora danno un’accezione antimilitarista, inscrivendola nella lotta di classe. Ai nuovi obiettori politicizzati, i partiti di governo oppongono i “veri obiettori”, quelli che maturano la scelta nel loro animo, senza ostentarla, come i testimoni di Geova. Di questa contrapposizione rimane traccia nella legge che riconosce solo gli obiettori che adducono motivi filosofici e religiosi, non quelli politici. La nuova visibilità dell’obiezione di coscienza coinvolge anche i suoi avversari: le piazze nonviolente sono spesso assaltate dalla violenza neofascista che vuole arginarne la diffusione.

Piero Gobetti, l’editore come un creatore

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Editore ideale

Nella sua casa di via XX settembre, a Torino, Piero Gobetti appunta delle parole con cui suggella la sua proposta di editoria:

Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni più tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana, dopo aver scritto 10 lettere e 20 cartoline, rivedute le terze bozze del libro di Tilgher o di Nitti, preparati gli annunci editoriali per il libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo 3 correzioni, mandato via rassegnato dopo 40 minuti di discussione il tipografo che chiedeva un aumento di 10 lire per foglio, senza concederglielo; aiutato il facchino a scaricare le casse di libri arrivate troppo tardi quando ci sono solo più io ad aspettarlo, schiodata io stesso la prima cassa per vedere i primi esemplari e soffrire io solo del foglio che è sbiancato in una copia, e consolarmi che tutto il resto va bene, che né il legatore né il macchinista non han fatto nessuna gherminella […]. Penso un editore come un creatore. Creatore dal nulla[1].

E creatore, difatti, Gobetti lo sarà per la casa editrice che porta il suo nome e fondata il 25 marzo del 1923. L’intento è di creare il luogo di raccolta per quelle “energie nove”, parafrasando il nome della sua prima rivista, che emergono nel primo dopoguerra e che poi confluiscono nella militanza politico-culturale antifascista.

Quella di Gobetti è una concezione eclettica della professione editoriale: ha in mente una figura tuttofare, una sorta di artigiano dell’editoria che porta avanti un’attività condotta con slancio ed entusiasmo, calibrando la dimensione commerciale con quella dell’organizzazione della cultura. Quindi un’editoria libraria che ha come risultato un libro di cultura con una forte carica morale e educativa.

L’attività febbrile, Ossi di seppia, lo stupore di Carlo Levi

Quella dell’editore giovane, come spesso viene chiamato Gobetti, è una concezione moderna del fare libri. Attento osservatore del suo tempo, con uno sguardo sempre in avanti, è il primo a scommettere sul poeta di Genova che poi diventerà il Montale del premio Nobel: nel 1925 l’esordio della raccolta poetica Ossi di seppia è proprio con la Piero Gobetti Editore.

Il lavoro della casa editrice è frenetico, quasi come se Gobetti respirasse una qualche premonizione che lo avverte di non avere molto tempo a disposizione. Il catalogo si arricchisce di oltre un centinaio di pubblicazioni in tre anni, tra il 1923 e il 1925. Tanto che Carlo Levi, quando un giorno si reca in casa editrice e chiede di poter incontrare Piero Gobetti, è certo che l’editore sia un anziano. Resta invece sorpreso quando sulla porta un ragazzo con occhi vivacissimi e penetranti, una nuvola di ricci in testa, gli risponde: «Sono io».

Editoria come impegno antifascista

Piero Gobetti sceglie una grafica scarna per le proprie edizioni con l’intento di contrapporla all’eleganza editoriale e all’esasperato estetismo di quel periodo. Si tratta di una ruvidezza da intendere come essenzialità. È Felice Casorati a occuparsene e sempre lui disegna l’ex libris.

Si deve invece ad Augusto Monti il motto alfieriano TI MOI ΣΥΝ ΔΟΥΛOIΣΥΝ (“tì moi sun doulòisin?”; “che ho a che fare io con gli schiavi?”) che Gobetti decide di applicare in calce alle copertine dei libri per rimarcare ulteriormente il disegno antifascista. Difatti la Piero Gobetti Editore diventa l’approdo sicuro per gli autori che, a causa del clima di censura in atto nel Paese, vengono rifiutati dalla maggior parte degli editori. Vengono pubblicate opere di personalità come Luigi Sturzo o Francesco Saverio Nitti, noti per la loro opposizione politica a Mussolini. Bisogna ricordare, tra i tanti, anche il testo di Luigi Einaudi, Le lotte del lavoro, opera che si occupa delle origini del movimento operaio in Italia, o la monografia che Gobetti dedica a Matteotti all’indomani dell’omicidio.

Le censure da parte del regime proseguono fino alla diffida del 3 febbraio 1926 che obbliga Gobetti a sospendere l’attività editoriale e a un forzato esilio a Parigi. Mentre Mussolini ordina al prefetto di Torino di “rendere la vita impossibile a Piero Gobetti, insulso oppositore del governo e del fascismo”, il giovane editore continua ad affiancare la forza dirompente delle parole all’azione politica fino a quella morte prematura che, il 15 febbraio del 1926, mette fine alla sua breve esistenza.

L’eredità gobettiana

Ignoriamo come sarebbe l’editoria italiana oggi se la vita di Piero Gobetti non si fosse interrotta troppo in fretta, però possiamo vedere i frutti che da quella pianta sono nati. Molte esperienze editoriali hanno infatti seguito le orme gobettiane: si pensi, per esempio, a quella di Vanni Scheiwiller. Su tutte, però, la diretta depositaria è di sicuro la casa editrice che Giulio Einaudi fonda nel 1933 sempre a Torino, nella storica sede di via Biancamano.

Giulia Gioia


Note e bibliografia

[1] P. Gobetti, L’editore ideale, Lacaita Editore, Manduria 2006, pp. 63-65.

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